Ti ho amato dal primo istante...

Ti ho amato dal primo istante...

venerdì 28 febbraio 2014

IL SIGNOR GUERRA E LA SIGNORA PACE

Il signor Guerra viveva su una collina dove pioveva e tuonava sempre.
Il signor Guerra aveva una grande casa di legno che cadeva a pezzi. Poche volte usciva di casa, e solo per gridare al negoziante che gli portasse il cibo.
- Per le spade arrugginite! Mi ha portato un'altra volta lo yogurt di fragole!
- E' che ... ho finito quelli di pera . rispondeva spaventato il negoziante.
Allora il signor Guerra prendeva il suo vecchio fucile e gridava: 
- Fuori di qui, adesso, o le riempio il didietro di pallini di sale!
- Non spari! Me ne vado!
- Non ritorni senza gli yogurt! E la prossima volta, che non siano scaduti!
Vicino alla casa del signor Guerra, separata da un fiumicello, c'era una piccola casetta che non veniva affittata da anni. Chiaro, nessuno voleva vivere vicino a quell'uomo tanto brontolone.
Ma guarda, guarda, un bel giorno arrivò in paese una donna che si innamorò di quella casina sulla cima della collina e la affittò senza far caso agli avvenimenti dei vicini.
Fu allora che, per la prima volta, un raggio di sole penetrò fra le nuvole che oscuravano la collina.
Vedendo il sole,il signor Guerra si affacciò alla finestra molto arrabbiato. E si arrabbiò ancora di più quando vide che, con la luce del sole, i fiori si erano aperti. Di malumore, attraversò il fiume passando per il ponticello e suonò alla porta della sua vicina.
Quando la donna aprì, il signor Guerra le gridò:
- Guardi cos'ha fatto! Non appena è arrivata, è uscito il sole!
- Vero che è una meraviglia? - rispose la donna, gentilissima.
- Per tutte le cariche della cavalleria! Una meraviglia? E' un disastro! A me piace solo il cielo grigio di pioggia!
- Allora avrà i reumatismi, signor ... signor ...?
- Signor Guerra! Il mio nome è signor Guerra!
- Molto piacere. Io mi chiamo Pace, signora Pace. Vuole entrare a prendere un tè?
- Odio il tè! - gridò il signor Guerra, rosso come un pomodoro, e se ne andò senza salutare la signora Pace.
Era passata una settimana dall'arrivo della nuova vicina e ora pioveva solo a tratti. Il signor Guerra guardava il cielo e si tirava i capelli, furioso.
Una mattina, mentre il signor Guerra, che era inventore,  lavorava nel suo laboratorio, sentì un odore strano. Mise la testa fuori dalla finestra e si rese conto che si trattava di profumo di fiori. Per alcuni secondi annusò quel profumo, ma poi si irritò e chiuse la finestra bruscamente.
Pochi minuti dopo, il signor Guerra sentì suonare alla porta. Irritato, perché non lo lasciavano tranquillo, andò ad aprire. La signora Pace, con viso gentile, aspettava di fuori.
- Mi può dare una tazzina di zucchero? Sto facendo una torta e l'ho finito.
- Per le balestre rotte! - esclamò l'uomo. - Odio lo zucchero! Non mi piacciono i dolci!
- E' diabetico? - chiese la signora Pace con occhi spalancati.
- No, non sono diabetico! Arrivederci! - e chiuse la porta senza tanti riguardi.
Alla fine arrivò la primavera. E le rondini, che non sapevano chi fosse il signor Guerra, fecero il nido nella sua casa.
- Che cos'è questo chiasso? -  si lamentò l'uomo. - Ah, queste maledette rondini!
Allora prese il bastone per pulire il camino e uscì deciso a distruggere i nidi. Salì su per una scala e, proprio quando era sul punto di distruggerli, sentì la voce della sua vicina alle sue spalle. Dallo spavento, perse l'equilibrio e cadde a terra.
- Che atterraggio spettacolare, signor Guerra. Che peccato che non avesse il paracadute!
- Che cosa fa qui? - le gridò l'uomo massaggiandosi il didietro dolorante.
- Sono venuta a portarle un pezzo di torta. C'è poco zucchero, perché so che non le piace molto.
Il signor Guerra rimase sorpreso.
Non aveva mai ricevuto un regalo. Inoltre, si sentiva ridicolo per la caduta. Perciò, non seppe cosa dire e con una manata prese la torta e chiuse la porta con un'aria poco amichevole.
Quella sera stessa, il signor Guerra ebbe un altro dispiacere. Gli si ruppe il grammofono e non poté ascoltare i suoi dischi di marce militari. Contrariato, andò in cucina, perché all'improvviso gli era venuta fame.
E lì trovò il pezzo di torta della signora Pace. Dato che era a portata di mano, gli diede un morso.
All'improvviso, sentì una gradevole sensazione che non ricordava di aver mai provato.
Il giorno dopo, il signor Guerra partì per un viaggio perché aveva ricevuto un incarico da un generale. Se ne andò a piccoli passi, e la nuvola nera, che ogni sera provocava un nubifragio, lo seguì come se fosse la sua ombra.
Quando ritornò, il signor Guerra si mise le mani nei capelli. Il portico di casa sua era dipinto di rosa e pieno di vasi di fiori che abbellivano la balaustra.
- Per tutte le sciabole! Che significa? - esclamò.
Prese il fucile e andò alla casetta della signora Pace.
- Capperi! Va a caccia di draghi? - chiese la signora Pace quando lo vide.
Il signor Guerra era sul punto di esplodere.
- Che sabotaggio ha fatto al mio portico?
La signora sorrise e gli spiegò che, durante la sua assenza, una folata di vento aveva distrutto il vecchio portico. Dato che nessuno in paese aveva voluto aiutarla, l'aveva riparato lei da sola.
L'uomo era sconcertato.
- Ma ... ma ..., perché lo ha fatto? - riuscì a dire.
- Siamo vicini, no? Dobbiamo aiutarci.
L'uomo era immobile a bocca aperta sulla porta.
Poi ritornò a casa sua, attraversando il ponticello di pietra, molto arrabbiato.
All'inizio dell'estate, il signor Guerra finì l'invenzione che gli era stata ordinata dal generale. L'uomo la trascinò fino al portico per provarla.
All'improvviso, la signora Pace vide una grossa pietra volare, che atterrò in un laghetto. Alcune oche scapparono spaventate. La signora Pace si avvicinò fino al portico del signor Guerra, dove vide una strana macchina.
- Cos'ha inventato che fa tanto rumore? - gli chiese.
Il signor Guerra cambiò espressione sentendo parlare della sua invenzione. Si gonfiò orgoglioso e con grande soddisfazione esclamò: 
-  Una catapulta!
-  Una cata... che? - ripeté la signora Pace.
-  Una catapulta! Un macchinario che tira pietre e abbatte i muri. Me l'ha ordinata un generale che vuole una nuova arma da guerra. Ho inventato una catapulta che lancia le pietre molto più lontano. Guardi.
Il signor Guerra spinse una leva, e una pietra venne lanciata a gran velocità e andò a sbattere contro un paio di lenzuoli che erano stesi in un prato.
- Oh, Dio mio! Non poteva inventare qualcos'altro? - gridò la donna, e se ne andò da quella casa che cadeva a pezzi.
L'uomo era sconcertato. Era la prima volta che vedeva la signora Pace disgustata.
Quella mattina il sole sembrava squagliare le pietre. La signora Pace uscì allarmata da casa, attraversò velocemente il ponticello e suonò alla porta del suo vicino.
- Un grande fuoco sta bruciando la valle e minaccia di distruggere il paese - disse in fretta.
Il signor Guerra alzò le spalle.
- Lei è un inventore! Deve fare qualcosa!
L'uomo la guardò con aria burlona.
- Crede che sia un pompiere?
- Perché non usa la catapulta per spegnerlo?
Il signor Guerra rise a crepapelle.
- Vuole spegnere le fiamme con le pietre?
- No ma lanciando secchi pieni di acqua, potremmo spegnerlo.
L'uomo dubitò un secondo e poi disse:
- Impossibile. Oggi viene il generale a prendere la catapulta.
- Per favore! Prima spegniamo il fuoco, prima potrà consegnarla.
La signora Pace prese per mano il signor Guerra e lo portò davanti alla catapulta. Il signor Guerra voleva protestare, ma il contatto con quella mano era così tenero che si lasciò portare.
Mentre l'uomo preparava la macchina, la vicina scese in paese affinché la gente aiutasse a riempire brocche di terracotta con l'acqua del pozzo del signor Guerra.
La catapulta gettava le brocche contro le fiamme con molta mira. Toccando il suolo, le brocche si rompevano e l'acqua spegneva le fiamme.
Finalmente l'incendio si spense e tutto il paese fece le congratulazioni al signor Guerra e alla signora Pace per la loro importante collaborazione. Il negoziante, entusiasta, regalò un sacco di yogurt di pera al signor Guerra e il sindaco gli diede una medaglia.
Il signor Guerra era commosso. Provava molti sentimenti contrari dentro di sé, e poiché non riusciva a crederci, scappò a casa sua.
Per il resto dell'estate nessuno vide nemmeno l'ombra del signor Guerra. Non usciva di casa né tantomeno apriva la porta.
Tuttavia, quando le foglie dell'autunno coprirono i campi, successe una cosa inaspettata. Il signor Guerra stava leggendo un libro di battaglie accanto al caminetto e all'improvviso sentì un grido di aiuto. 
Senza pensarci due volte, prese il fucile e andò sul ponticello.
Da lì riuscì a vedere alcuni ladri che stavano rubando le galline della signora Pace. Il signor Guerra parlò con voce tonante:
- Ehi, bricconi, lasciate le galline! - e sparò un colpo in aria.
I ladri si spaventarono e fuggirono a gambe levate.
Il signor Guerra li rincorse, ma inciampò nel filo dei panni stesi e cadde in una pozzanghera. La signora Pace uscì sul portico. Era spaventata, ma vedendo l'aspetto del suo vicino, non riuscì a trattenere una risata. Il signor Guerra si alzò e, all'improvviso, si sentì talmente ridicolo per il suo aspetto che si arrischiò solo a chiedere:
- Sta bene?
- Sì.
- Allora ... Arrivederci!
E se ne andò camminando molto dignitosamente verso casa sua.
La signora Pace lasciò passare due giorni poi suonò alla porta del signor Guerra con un mazzo di fiori. Da dentro la casa, alla donna arrivò un odore gradevole. E il signor Guerra andò ad aprire con indosso il grembiule.
- Che sta facendo? - gli chiese sorpresa la donna.
- Faccio una torta. Da quando mi ha portato quel pezzo mi sono affezionato al dolce. Ne ho già uno pronto, ne vuole un pezzetto?
- Con piacere.
E la donna entrò in casa del signor Guerra per la prima volta. Mentre metteva i fiori in un vaso, si sorprese vedendo le pareti colorate.
- Ha dipinto la casa?
- Così si intonano con il colore del portico che ha dipinto lei.
Le chiacchere, all'improvviso, furono interrotte da un'esplosione.  Il signor Guerra corse verso il suo laboratorio. Una volta dentro, fu bagnato da uno spruzzo di acqua. Allora l'uomo, bagnato dalla testa ai piedi, fermò la macchina da dove usciva l'acqua.
- Che cos'è questo aggeggio? - chiese la signora Pace, trattenendo a fatica le risate vedendo l'aspetto del suo vicino.
- Una macchina per spegnere gli incendi. L'ho ... l'ho costruita con il legno e i rottami di ferro della catapulta.
- E il generale? - chiese la signora Pace, sorridendo dolcemente.
- Dovrà ritardare la sua guerra ...
Quella sera la signora Pace e il signor Guerra rimasero a parlare molto allegramente. Lei era andata a prendere dei dischi  e ... ballarono persino un valzer. Quando si salutarono, si sorpresero entrambi dandosi un bacio.
Poco dopo, la casina della signora Pace era di nuovo in affitto. Perché il signor Guerra e la signora Pace avevano deciso di sposarsi.
E per come stanno le cose, adesso il signor Guerra ha un carattere molto dolce e non usa più il fucile. Al contrario, la signora Pace non può fare a meno di arrabbiarsi se il negoziante le porta yogurt di fragola, perché quelli che piacciono a suo marito, quelli di pera, sono finiti.

(Joan de Déu Prats)

venerdì 21 febbraio 2014

MIA SORELLA E' UN QUADRIFOGLIO

Questa storia è pensata per parlare ai bambini di disabilità e in particolare di che cosa significa per la famiglia accogliere la nascita di un bambino disabile. Attraverso lo sguardo, le emozioni e le esperienze di una sorella, si affrontano temi difficili come la diversità e l'accettazione, ricordandoci che ognuno a suo modo è raro e per questo speciale.



Questa storia è per
quei bambini e quei grandi
che  non si accontentano
di essere uguali e che non
hanno paura di essere diversi.


MIA SORELLA

E’ UN
QUADRIFOGLIO



Quando è nata, mia sorella era un fagotto di ciccia, come tutti i neonati.
Sono andata a trovarla in ospedale e  mi è sembrata bruttissima, ma anche carina.
Era così piccola che bisognava proteggerla.
Speravo solo che la mamma continuasse a volere bene anche a me. Sì, diciamolo: ero gelosa.
La mamma aveva scelto già il nome.
Io mi chiamo Viola e lei doveva chiamarsi Mimosa, perché sono due fiori e i colori viola e giallo stanno bene insieme.



Il papà quando l’ha vista ha detto: «Ma quali fiori …». E si è messo a guardare fuori dalla finestra.
Io mi sono offesa per me e anche per Mimosa.
Una nonna piangeva.
L’altra non è nemmeno venuta con noi all’ospedale.
La mamma si è arrabbiata.
Era arrabbiata, ma anche triste.
Poi sono tornate a casa.
Io ero contenta, perché preferivo stare a casa mia invece che a casa della nonna dove mi avevano mandato quando la mamma e Mimosa erano in ospedale.
E poi dovevo controllare che Mimosa non prendesse il mio posto. I fratelli piccoli sono tremendi.


A casa però qualcosa non andava.
Il papà una sera non è tornato a dormire. Ho chiesto dov’era e la mamma ha detto che era via per lavoro, ma io lo sapevo che non era vero, perché lui fa il professore di scuola e non va mai via per lavoro tranne quando c’è la gita, e allora ce lo dice.


E comunque la mamma l’ha detto con una voce piccola che non era la sua, così ho capito che era una bugia, o una cosa che non voleva dirmi.
La nonna veniva a trovarci spesso e ripeteva: «Bisogna essere forti. Bisogna avere coraggio».
Io ero d’accordo: ci vuole del coraggio a prendersi in casa un bambino piccolo che piange tanto e continua a sporcarsi e devi cambiarlo dieci volte al giorno.


Poi il papà è tornato. Aveva la faccia di uno che non ha dormito bene.
Ha detto alla mamma: «Scusa», e l’ha stretta forte.
Mi ha preso in braccio e mi ha stretto forte.
Poi ha preso in braccio Mimosa e l’ha stretta, ma piano, perché i bambini piccoli sono molli.
Eravamo tutti insieme e io mi sono sentita bene.
Io l’avevo già capito da sola che Mimosa era diversa dagli altri bambini. Ma uno non può mica chiedere scusa per quello che è. E’ così e basta.


Si è capito meglio quando ha cominciato a crescere. Cresceva piano, comunque, perché succhiava il latte con fatica e quando ha cominciato a mangiare le pappe non andava tanto d’accordo con il cucchiaino.
L’altra nonna continuava a non venirci a trovare.
Una volta che è venuta a prendermi a scuola le ho detto: «Non devi aver paura di Mimosa. Non mangia nessuno».
Le sono venute le lacrime agli occhi, ma non ha detto niente. Mi ha accompagnato a casa e mi ha lasciato sul pianerottolo come al solito.


Poi un giorno è entrata. Aveva portato i pasticcini, ma non ne ha mangiato nemmeno uno. Io invece ne ho mangiati sette.
«Certo, è diversa» ha detto guardando Mimosa, che dormiva tranquilla in braccio alla mamma. «Ma siamo tutti diversi, vero?»
La mamma ha fatto sì con la testa. Non hanno parlato molto. Però da allora l’altra nonna viene da noi tutti i giovedì con i pasticcini.
Adesso che li mangia anche Mimosa facciamo a gara a chi divora più cannoncini. A volte vinco io che sono più grande, a volte vince lei.
E’ una tale mangiona.


E’ vero: Mimosa è diversa.
Mi hanno spiegato perché, ma mi è sembrata una faccenda complicata.
Non ci ho capito molto.
E’ una bambina tonda, con le guanciotte come un criceto e i capelli morbidi color nocciola. Quando ride gli occhi le spariscono nelle pieghe della faccia. E’ una che ride molto.
E’ affettuosa, abbraccia tutti e vuole che le diano la mano. Parla poco, dice le frasi lentamente, come se tu non capissi.
A volte però è lei che non capisce.
Ci vuole un po’ di pazienza. Molta pazienza.
A volte mi sembra che venga da un altro pianeta.
Un pianeta strano dove tutti fanno le cose piano, sorridono e si abbracciano, proprio come fa lei.


Quando andiamo in posti nuovi, come per esempio in vacanza, all’inizio è un po’ difficile.
La gente la guarda con curiosità ma poi fa finta di ignorarla. Lei però sbaraglia tutti perché si avvicina, sorride e ti guarda da sotto in su, e non puoi fare a meno di accorgerti che è lì e chiede la tua attenzione.
Quasi sempre la gente finisce per sorridere anche lei.
Comunque non andiamo molto in posti nuovi.
E’ più facile andare dove la gente conosce già Mimosa.


Il problema di solito sono i grandi.
I bambini meno. Mimosa ha imparato che non si strappano i giochi agli altri bambini, c’è voluto un sacco di tempo a farglielo capire, però adesso lo sa.
Quando vede un gioco che le piace lo fissa con uno sguardo così pungente che alla fine il proprietario si arrende e glielo presta. Qualche volta lei non vuole restituire il gioco. Ci stiamo lavorando.


Certe volte penso che stavo meglio quando ero figlia unica e avevo la mamma e il papà tutti per me. L’ho detto a Lilli, che è la mia migliore amica e ha tre fratelli più grandi, e lei mi ha confidato che pensa la stessa cosa. Anche Alberto dice che suo fratello piccolo è uno strazio.
Siamo tutti d’accordo su questa cosa.
I fratelli sono una cosa complicata.
Un po’ perché ti rubano spazio.
Un po’ perché, se sono più piccoli, si prendono tutte le attenzioni proprio perché sono piccoli.
Se poi hai una sorella che è più piccola e anche un po’ diversa, è anche peggio.


Mia sorella non mi piace quando pianta uno dei suoi capricci. O quando non sta bene e tutti si occupano di lei e si dimenticano di me.
Adesso la mamma ha imparato: prima si dimenticava di più. «Lo so che ho due fiori in casa» dice «e devo innaffiarli tutti e due».
A volte mia sorella non mi piace, però forse ogni tanto anch’io non piaccio a lei. Quando non voglio darle le mie cose, o quando lei vuole che giochiamo insieme e io invece preferisco andare da un mio amico.
Così siamo pari, e siamo sempre sorelle.



A volte la mamma e il papà trattano Mimosa come una bambola.
Stanno sempre attenti che sia ben coperta, che non prenda freddo, che non si stanchi.
Veramente fanno così anche con me.
E mettiti il cappello, e ricordati la sciarpa, e non correre, e non sudare.
«Non sono mica di vetro» ho detto una volta che non la finivano più.
E Mimosa: «Non siamo mica di vetro».
La mamma e il papà sono scoppiati a ridere.
Così adesso qualche volta possiamo anche non metterci il cappello, e fa lo stesso.


Mia sorella ha qualcosa che non va dentro il cuore. Una cosa che non funziona bene. A me pare che il suo cuore sia a postissimo così com’è, perché vuole bene a tutti e sorride a tutti e vuole fare amicizia con tutti. Forse il suo problema è che ha il cuore troppo grande.
Comunque dicono che si può aggiustare.
Quando sarà più grande dovranno farle un’operazione. I dottori, dico.
Speriamo che non torni con il cuore troppo piccolo.




Mimosa non sa fare certe cose, ma altre sì.
Per esempio è molto brava ad apparecchiare la tavola. Ci mette un sacco di tempo, ma non è importante: basta cominciare in anticipo.
Tu le prepari tutte le cose sul piano della cucina e lei sistema le tovagliette diritte, poi piega in due i tovaglioli di carta e ci mette sopra le posate.
Bisogna avere pazienza. La mamma dice che a correre non si arriva da nessuna parte.
Dopo Mimosa batte le mani, perché è contenta di aver fatto una cosa bene fino in fondo.
I piatti e i bicchieri sono tutti colorati.
I miei sono viola, i suoi gialli.
Qualche volta li scambia: fa apposta per scherzare.


Ieri Martino, che è il mio compagno di classe più odioso, mi ha preso in giro tutto il giorno come fa lui, con delle canzoncine stupide che s’inventa e che non fanno ridere nessuno.
Siccome io facevo finta di niente alla fine mi ha detto: «Tua sorella non è mica normale». Poi è corso via perché aveva paura di prenderle.
Tanto prima o poi lo becco, Martino.
E comunque ha ragione. Mia sorella non è normale. Lei è speciale. Essere normali vuol dire essere uguali: come i fili d’erba, come i trifogli in un prato.
Mia sorella invece è un quadrifoglio.


I quadrifogli sono rari e sono diversi. Sono rari perché sono diversi. Sono diversi perché sono rari. Tutti vorrebbero trovarne uno, ma ci riescono in pochi. I quadrifogli portano fortuna. Noi abbiamo la fortuna di averne uno tutto nostro: Mimosa, il quadrifoglio.

Mi piace pensare che il mondo sia un posto dove tutti siamo speciali.
Io sono speciale a fare i disegni, per esempio.
Il papà è speciale quando fa la pizza.
La mamma è speciale quando legge le storie.
Mimosa è speciale a sorridere.

E’ la cosa che le viene meglio.
Siamo tutti diversi e siamo tutti speciali.
In un prato c’è posto per tutto: i quadrifogli, le farfalle, le coccinelle, le formiche, i fiori.
Anche nel mondo dev’essere così.


Il prossimo anno Mimosa andrà a scuola.
La mamma e il papà sono un po’ preoccupati perché all’asilo si va per giocare, a scuola per imparare.
Io invece non mi preoccupo. Mimosa forse non imparerà le cose che imparano gli altri bambini; fa un po’ fatica a tenere bene in mano le matite e i colori, per esempio. Però a colorare è brava, e sceglie sempre degli accostamenti belli.
Il suo preferito è il viola con il giallo, chissà perché!
A scuola, Mimosa riempirà i muri della classe di disegni viola e gialli che mettono allegria.
E le maestre non potranno non volerle bene.

Quando guardo Mimosa che gioca da sola con un pupazzetto e ride, allora non penso che è un quadrifoglio, e nemmeno che è diversa o speciale o quelle cose lì.
Penso che è mia sorella e basta.