Ti ho amato dal primo istante...

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venerdì 21 febbraio 2014

MIA SORELLA E' UN QUADRIFOGLIO

Questa storia è pensata per parlare ai bambini di disabilità e in particolare di che cosa significa per la famiglia accogliere la nascita di un bambino disabile. Attraverso lo sguardo, le emozioni e le esperienze di una sorella, si affrontano temi difficili come la diversità e l'accettazione, ricordandoci che ognuno a suo modo è raro e per questo speciale.



Questa storia è per
quei bambini e quei grandi
che  non si accontentano
di essere uguali e che non
hanno paura di essere diversi.


MIA SORELLA

E’ UN
QUADRIFOGLIO



Quando è nata, mia sorella era un fagotto di ciccia, come tutti i neonati.
Sono andata a trovarla in ospedale e  mi è sembrata bruttissima, ma anche carina.
Era così piccola che bisognava proteggerla.
Speravo solo che la mamma continuasse a volere bene anche a me. Sì, diciamolo: ero gelosa.
La mamma aveva scelto già il nome.
Io mi chiamo Viola e lei doveva chiamarsi Mimosa, perché sono due fiori e i colori viola e giallo stanno bene insieme.



Il papà quando l’ha vista ha detto: «Ma quali fiori …». E si è messo a guardare fuori dalla finestra.
Io mi sono offesa per me e anche per Mimosa.
Una nonna piangeva.
L’altra non è nemmeno venuta con noi all’ospedale.
La mamma si è arrabbiata.
Era arrabbiata, ma anche triste.
Poi sono tornate a casa.
Io ero contenta, perché preferivo stare a casa mia invece che a casa della nonna dove mi avevano mandato quando la mamma e Mimosa erano in ospedale.
E poi dovevo controllare che Mimosa non prendesse il mio posto. I fratelli piccoli sono tremendi.


A casa però qualcosa non andava.
Il papà una sera non è tornato a dormire. Ho chiesto dov’era e la mamma ha detto che era via per lavoro, ma io lo sapevo che non era vero, perché lui fa il professore di scuola e non va mai via per lavoro tranne quando c’è la gita, e allora ce lo dice.


E comunque la mamma l’ha detto con una voce piccola che non era la sua, così ho capito che era una bugia, o una cosa che non voleva dirmi.
La nonna veniva a trovarci spesso e ripeteva: «Bisogna essere forti. Bisogna avere coraggio».
Io ero d’accordo: ci vuole del coraggio a prendersi in casa un bambino piccolo che piange tanto e continua a sporcarsi e devi cambiarlo dieci volte al giorno.


Poi il papà è tornato. Aveva la faccia di uno che non ha dormito bene.
Ha detto alla mamma: «Scusa», e l’ha stretta forte.
Mi ha preso in braccio e mi ha stretto forte.
Poi ha preso in braccio Mimosa e l’ha stretta, ma piano, perché i bambini piccoli sono molli.
Eravamo tutti insieme e io mi sono sentita bene.
Io l’avevo già capito da sola che Mimosa era diversa dagli altri bambini. Ma uno non può mica chiedere scusa per quello che è. E’ così e basta.


Si è capito meglio quando ha cominciato a crescere. Cresceva piano, comunque, perché succhiava il latte con fatica e quando ha cominciato a mangiare le pappe non andava tanto d’accordo con il cucchiaino.
L’altra nonna continuava a non venirci a trovare.
Una volta che è venuta a prendermi a scuola le ho detto: «Non devi aver paura di Mimosa. Non mangia nessuno».
Le sono venute le lacrime agli occhi, ma non ha detto niente. Mi ha accompagnato a casa e mi ha lasciato sul pianerottolo come al solito.


Poi un giorno è entrata. Aveva portato i pasticcini, ma non ne ha mangiato nemmeno uno. Io invece ne ho mangiati sette.
«Certo, è diversa» ha detto guardando Mimosa, che dormiva tranquilla in braccio alla mamma. «Ma siamo tutti diversi, vero?»
La mamma ha fatto sì con la testa. Non hanno parlato molto. Però da allora l’altra nonna viene da noi tutti i giovedì con i pasticcini.
Adesso che li mangia anche Mimosa facciamo a gara a chi divora più cannoncini. A volte vinco io che sono più grande, a volte vince lei.
E’ una tale mangiona.


E’ vero: Mimosa è diversa.
Mi hanno spiegato perché, ma mi è sembrata una faccenda complicata.
Non ci ho capito molto.
E’ una bambina tonda, con le guanciotte come un criceto e i capelli morbidi color nocciola. Quando ride gli occhi le spariscono nelle pieghe della faccia. E’ una che ride molto.
E’ affettuosa, abbraccia tutti e vuole che le diano la mano. Parla poco, dice le frasi lentamente, come se tu non capissi.
A volte però è lei che non capisce.
Ci vuole un po’ di pazienza. Molta pazienza.
A volte mi sembra che venga da un altro pianeta.
Un pianeta strano dove tutti fanno le cose piano, sorridono e si abbracciano, proprio come fa lei.


Quando andiamo in posti nuovi, come per esempio in vacanza, all’inizio è un po’ difficile.
La gente la guarda con curiosità ma poi fa finta di ignorarla. Lei però sbaraglia tutti perché si avvicina, sorride e ti guarda da sotto in su, e non puoi fare a meno di accorgerti che è lì e chiede la tua attenzione.
Quasi sempre la gente finisce per sorridere anche lei.
Comunque non andiamo molto in posti nuovi.
E’ più facile andare dove la gente conosce già Mimosa.


Il problema di solito sono i grandi.
I bambini meno. Mimosa ha imparato che non si strappano i giochi agli altri bambini, c’è voluto un sacco di tempo a farglielo capire, però adesso lo sa.
Quando vede un gioco che le piace lo fissa con uno sguardo così pungente che alla fine il proprietario si arrende e glielo presta. Qualche volta lei non vuole restituire il gioco. Ci stiamo lavorando.


Certe volte penso che stavo meglio quando ero figlia unica e avevo la mamma e il papà tutti per me. L’ho detto a Lilli, che è la mia migliore amica e ha tre fratelli più grandi, e lei mi ha confidato che pensa la stessa cosa. Anche Alberto dice che suo fratello piccolo è uno strazio.
Siamo tutti d’accordo su questa cosa.
I fratelli sono una cosa complicata.
Un po’ perché ti rubano spazio.
Un po’ perché, se sono più piccoli, si prendono tutte le attenzioni proprio perché sono piccoli.
Se poi hai una sorella che è più piccola e anche un po’ diversa, è anche peggio.


Mia sorella non mi piace quando pianta uno dei suoi capricci. O quando non sta bene e tutti si occupano di lei e si dimenticano di me.
Adesso la mamma ha imparato: prima si dimenticava di più. «Lo so che ho due fiori in casa» dice «e devo innaffiarli tutti e due».
A volte mia sorella non mi piace, però forse ogni tanto anch’io non piaccio a lei. Quando non voglio darle le mie cose, o quando lei vuole che giochiamo insieme e io invece preferisco andare da un mio amico.
Così siamo pari, e siamo sempre sorelle.



A volte la mamma e il papà trattano Mimosa come una bambola.
Stanno sempre attenti che sia ben coperta, che non prenda freddo, che non si stanchi.
Veramente fanno così anche con me.
E mettiti il cappello, e ricordati la sciarpa, e non correre, e non sudare.
«Non sono mica di vetro» ho detto una volta che non la finivano più.
E Mimosa: «Non siamo mica di vetro».
La mamma e il papà sono scoppiati a ridere.
Così adesso qualche volta possiamo anche non metterci il cappello, e fa lo stesso.


Mia sorella ha qualcosa che non va dentro il cuore. Una cosa che non funziona bene. A me pare che il suo cuore sia a postissimo così com’è, perché vuole bene a tutti e sorride a tutti e vuole fare amicizia con tutti. Forse il suo problema è che ha il cuore troppo grande.
Comunque dicono che si può aggiustare.
Quando sarà più grande dovranno farle un’operazione. I dottori, dico.
Speriamo che non torni con il cuore troppo piccolo.




Mimosa non sa fare certe cose, ma altre sì.
Per esempio è molto brava ad apparecchiare la tavola. Ci mette un sacco di tempo, ma non è importante: basta cominciare in anticipo.
Tu le prepari tutte le cose sul piano della cucina e lei sistema le tovagliette diritte, poi piega in due i tovaglioli di carta e ci mette sopra le posate.
Bisogna avere pazienza. La mamma dice che a correre non si arriva da nessuna parte.
Dopo Mimosa batte le mani, perché è contenta di aver fatto una cosa bene fino in fondo.
I piatti e i bicchieri sono tutti colorati.
I miei sono viola, i suoi gialli.
Qualche volta li scambia: fa apposta per scherzare.


Ieri Martino, che è il mio compagno di classe più odioso, mi ha preso in giro tutto il giorno come fa lui, con delle canzoncine stupide che s’inventa e che non fanno ridere nessuno.
Siccome io facevo finta di niente alla fine mi ha detto: «Tua sorella non è mica normale». Poi è corso via perché aveva paura di prenderle.
Tanto prima o poi lo becco, Martino.
E comunque ha ragione. Mia sorella non è normale. Lei è speciale. Essere normali vuol dire essere uguali: come i fili d’erba, come i trifogli in un prato.
Mia sorella invece è un quadrifoglio.


I quadrifogli sono rari e sono diversi. Sono rari perché sono diversi. Sono diversi perché sono rari. Tutti vorrebbero trovarne uno, ma ci riescono in pochi. I quadrifogli portano fortuna. Noi abbiamo la fortuna di averne uno tutto nostro: Mimosa, il quadrifoglio.

Mi piace pensare che il mondo sia un posto dove tutti siamo speciali.
Io sono speciale a fare i disegni, per esempio.
Il papà è speciale quando fa la pizza.
La mamma è speciale quando legge le storie.
Mimosa è speciale a sorridere.

E’ la cosa che le viene meglio.
Siamo tutti diversi e siamo tutti speciali.
In un prato c’è posto per tutto: i quadrifogli, le farfalle, le coccinelle, le formiche, i fiori.
Anche nel mondo dev’essere così.


Il prossimo anno Mimosa andrà a scuola.
La mamma e il papà sono un po’ preoccupati perché all’asilo si va per giocare, a scuola per imparare.
Io invece non mi preoccupo. Mimosa forse non imparerà le cose che imparano gli altri bambini; fa un po’ fatica a tenere bene in mano le matite e i colori, per esempio. Però a colorare è brava, e sceglie sempre degli accostamenti belli.
Il suo preferito è il viola con il giallo, chissà perché!
A scuola, Mimosa riempirà i muri della classe di disegni viola e gialli che mettono allegria.
E le maestre non potranno non volerle bene.

Quando guardo Mimosa che gioca da sola con un pupazzetto e ride, allora non penso che è un quadrifoglio, e nemmeno che è diversa o speciale o quelle cose lì.
Penso che è mia sorella e basta.


 

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