Il monte Hohentwiel sorge nei pressi di Singen, in Svezia. Tanto tempo fa ci viveva un conte che razziava le stalle dei suoi contadini e svuotava le loro dispense. I poveretti si ritrovarono ben presto senza niente da mangiare, derubati perfino delle sementi che dovevano servire per seminare i campi. Come se ciò non bastasse, una terribile siccità si abbatté su quelle terre sciagurate. Gli animali morivano di sete, gli uomini di fame. Le mucche si accasciavano agonizzanti sui pascoli bruciati dal sole e i maiali crollavano stremati nelle porcilaie. Perfino i conigli si ridussero in poco tempo a mucchietti di pelo e ossa. Le sole creature che invece continuavano a ingrassare erano i corvi. Arrivavano a stormi sui campi riarsi, lugubri brigate nere scese a banchettare sulle magre carogne degli altri animali.
Il figlio di un contadino li notò. Come tutti i ragazzini che vivevano da quelle parti, era magro come uno stecco e piuttosto piccolino, perché lo stomaco vuoto e la fame non hanno mai fatto crescere nessuno. Però era sveglio e intelligente. "Ma com'è che qui intorno crepiamo tutti di fame, mentre il conte e i corvi sono grassi come vitelli?" si chiedeva, perplesso.
Ora, se con il conte non c'era niente da fare, almeno con i corvi poteva sperare di capire qualcosa. "Se voglio sopravvivere alla carestia" pensò, "devo scoprire come fanno a trovare il cibo." Detto fatto. Si avvolse nel suo mantello nero, s'infilò un paio di calze rosse, salì in vetta all'albero più alto e cominciò ad osservarli.
In men che non si dica, imparò la loro lingua.
Il sole era appena tramontato, quando il loro capo spedì un piccolo stormo in avanscoperta. «Andate a vedere se c'è qualche morto fresco in giro!»
I pennuti esploratori partirono per un volo di ricognizione e quando tornarono riferirono che cosa avevano trovato: una mucca stecchita in un campo lì vicino, un maiale in una porcilaia e un cavallo appena fuori del villaggio. I corvi si levarono gracchiando in volo per poi scendere come saette in picchiata non appena individuavano il punto del banchetto. Il ragazzo intanto aveva visto quanto bastava. Scese svelto dall'albero, si mise una pelle di mucca in testa e così bardato andò a stendersi dietro la stalla. Passarono pochi minuti e un gruppetto di corvi affamati si avventò su di lui e cercò di strappargli gli occhi. «Presi!» urlò il finto vitello, agguantando le zampe dei due più grassi, che finirono arrostiti allo spiedo, lasciando i compagni allibiti e costernati.
Il mattino dopo il ragazzo si coprì con una pelle di cavallo e si sdraiò in un fossato sul ciglio della strada. Arrivarono i corvi e subito si precipitarono a strappargli gli occhi. «Giocati!» gridò il finto cavallo, afferrando i due più grassi. Anche loro, come gli sventurati del giorno prima, finirono arrostiti sullo spiedo. Bah, meglio che niente!
Ma i corvi cominciavano ad avere paura. «Non ci libereremo mai di quel furbastro» si dissero. «Tanto vale sentire cosa vuole da noi.» Il ragazzo, che capiva la loro lingua, si arrampicò sull'albero e andò a parlamentare.
«Come mai ti sei messo a mangiarci?» gli chiesero i corvi.
«Perché ho fame!» rispose il ragazzo.
«E perché non chiedi ai tuoi simili di darti da mangiare?»
«Perché hanno fame anche loro. Non c'è più niente da mettere sotto i denti.»
«Questo non è vero!» protestarono gli uccelli in coro. «Le dispense, le stalle e i magazzini del conte di Hohentwiel traboccano di ogni ben di Dio. E lui è uno della tua specie: un umano!»
«Un conte!» li corresse il ragazzo.
I corvi parlottarono un po' fra di loro, poi decisero di fargli una proposta. «Se tu prometti di lasciarci in pace, noi ti aiutiamo ad acciuffare il conte.»
«Sta bene» disse il ragazzo. «Ma guai a voi se cercate di imbrogliarmi! Giuro che vi spenno e vi arrostisco tutti quanti! E per spiedo uso l'ultimo ramo su cui vi siete appollaiati!»
«Stai tranquillo. Non è mai successo che un corvo non mantenesse una promessa.»
Il ragazzo saltò il pranzo, si nascose tra i rami e attese.
Il conte arrivò davvero. A cavallo. Galoppò fin sotto l'albero, alzò il capo e gridò: «Ehi, tu! Tu, svitato con le calze rosse, cosa ci fai lassù? Chi sei? Parla!»
«Sono il re dei corvi!» gli gridò il ragazzo dall'alto. «E stavo aspettando proprio te. Ti ordino di aprire immediatamente le tue stalle e le dispense e di ridare il granturco alla povera gente che sta morendo di fame!»
Il conte rise sguaiatamente. «Sentitelo! Un matto in cima a un albero che dice di essere il re dei corvi! Uno squinternato che ha l'ardire di dare a me, un conte, degli ordini!»
Alzò l'arco e prese la mira. Ma la freccia non partì. Uno stormo di corvi apparve dal cielo all'improvviso e si abbatté come un fulmine nero sul nobile arrogante, tempestandolo di beccate. «Fai smettere queste bestiacce!» urlò il conte. «Falle smettere e parleremo!»
Il ragazzo richiamò i corvi. Il conte invece affondò gli speroni nei fianchi del suo cavallo e partì al galoppo, sghignazzando beffardo. Correva così forte che la povera bestia schiumava dalle narici. Ma non andò troppo lontano. A un cenno del ragazzo i corvi partirono all'attacco, superarono il cavallo e gli si pararono davanti. L'animale s'impennò terrorizzato. Il conte cadde rovinosamente a terra e lì rimase, immobile, fino a quando il ragazzo non arrivò a legargli le mani dietro la schiena..
Dopodiché, ammaccato e dolorante, venne accompagnato fino al castello sul monte Hohentwiel. Il ragazzo, dietro di lui, in sella; i corvi sopra il suo capo, che volavano vigili e silenziosi in cerchio.
Attraversarono poderi e villaggi. Il ragazzo chiamò a gran voce la gente, che si riversò in strada a guardare incuriosita la strana processione. Il conte dovette promettere solennemente a tutti quanti che avrebbe restituito ai legittimi proprietari fino all'ultimo animale e fino all'ultimo chicco di granturco rubato. E così fu. Vennero aperte stalle e porcilaie per sfamare la povera gente ridotta allo stremo. Dalle cantine uscirono botti di vino e barili di birra per ridare colore alle guance smunte e ingrigite.
I contadini accorsero al castello. Molti erano spaventati, perché ancora non riuscivano a credere che un buffone qualunque potesse avere tanto potere sul suo signore. Una cosa del genere non si sentiva da parecchio tempo!
Ma si sa, tra la paura e la fame è sempre quest'ultima a spuntarla. Perché è più vicina la cinghia che si deve tirare di quella che forse potrebbe scorticarti il groppone. Da parte sua, il conte fece tutto ciò che il ragazzo gli ordinò, avendo ottimi motivi per non contraddirlo: motivi neri e dal becco affilato, che continuavano a volargli in cerchio sopra la testa.
Solo quando fu tutto equamente ripartito e non rimase neppure un chicco di granturco nei granai, il conte venne slegato. Il suo primo istinto fu di avventarsi sul ragazzo: ma quello, senza scomporsi, alzò semplicemente lo sguardo al cielo.
«E va bene» disse il conte. «Ma anche un buffone sa che non può permettersi di legare il suo signore e sperare di passarla liscia! Tu dici di essere il re dei corvi e hai voluto darmi una bella lezione. Lo accetto. E' questo il fine e il valore della tua arte. Ma un conte è pur sempre un conte! Così d'ora in poi io ti confino a vivere sulla vetta di una montagna. Sarà quello il tuo regno. Solo lassù sarai al sicuro dalla mia ira. E siccome sei il re dei corvi, loro ti seguiranno nel tuo esilio e quella sarà per sempre la vostra dimora.»
Il ragazzo accettò. E da quel giorno in poi la vetta che offrì riparo al giovane contadino che, appollaiato su un albero, aveva costretto il suo conte a un atto di giustizia, fu chiamata da tutti Monte Corvo. Per molti anni a venire la gente continuò a vederlo, circondato dai suoi amici e avvolto in un mantello nero, con un paio di calze rosse ai piedi. C'è addirittura chi sostiene di averlo visto anche di recente. Chissà ...
Una cosa però è certa: i corvi non hanno mai abbandonato il loro regno.
(Reinhardt Jung, «Bambert e il libro delle storie volanti»)
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