“L’amicizia è un’anima che vive in due corpi.” (Aristotele)
Si
era distinto subito nella nidiata quell'uccellino perché, anche se,
come gli altri suoi fratellini, al caldo del nido, intanto che attendeva
la premurosa genitrice di ritorno con il cibo (teneri germogli, piccoli
vermetti da ingoiare avidamente) guardava verso il cielo azzurro e
sognava di volare, la sua mamma, controllando
attentamente tutti i piccoli uno ad uno, aveva subito realizzato che
era nato svantaggiato: non gli sarebbero mai spuntate le ali!
-Povero lui, povero lui, che destino infelice gli si preparava!- affranta pensava- Non solo non avrebbe mai provato le gioie e la libertà del volo, ma non avrebbe nemmeno avuto lunga vita. In un mondo in cui avrebbe dovuto sfrecciare di continuo nel cielo, in voli e ricorse gioiose, anche in fughe precipitose, per sfuggire ad eventuali artigli predatori, come, povero piccolo, poteva pensare di cavarsela privo degli strumenti del volo?
-Tra i suoi figli era di certo quello sfortunato, perciò lo amava ancor di più, ed allora, maggiormente amorevole, lo nutrì e lo crebbe, ed il piccolino venne su bene; ed anche se, una volta svezzato, non spiccò l'agognato volo verso il cielo insieme ai suoi fratellini, imparò, seppur maldestramente, goffamente, a zampettare qui e là, e a gioire dei voli altrui.
Consapevole che mai avrebbe potuto volare, non riusciva ad impedirsi di sognarlo, e ci provava pure nella realtà; emettendo strani versi, gonfiando il petto, sbuffando e arrancando, cercava di spiccare un balzello più alto degli altri, in modo da avere almeno l'illusione del volo.
-Chissà cosa si provava a volteggiare lassù- si chiedeva- in alto, in alto, fra le nuvolette bianche e rosa, fra i ciuffi di cirri rosa e viola che s'allungavano al tramonto nel cielo turchino della primavera; e a sorvolare, al sole infuocato di fine estate, i biondi campi gonfi di spighe di grano maturo, ove rossi papaveri sfrontati occhieggiavano; e a sfiorare i roseti, dove le languide regine dei fiori dalle testoline rosa e bianche, gialle e rosse, le rose, esalavano al vento le loro ultime tiepide fragranze, prima di dirigersi verso nuovi paesi più caldi per non esser sorpresi dai primi brividi autunnali, presagio dei crudeli rigori invernali! Meschino, mai avrebbe potuto sentire sulle sue piume la carezza del vento o il tiepido bacio del sole o il leggero brivido di una pioggerellina estiva o il primo rigore invernale!
-E fu così che, in un giorno di maggiore tristezza, all'ombra di un ciuffetto di timorosi ciclamini selvatici, dove si era nascosto per non rivelare alla sua mamma afflitta il suo dolore, cominciò a piangere a dirotto, ma qualcosa quasi subito lo distolse dalle sue lacrime... ma sì, era un altro pianto.
-Chi era che piangeva? Possibile che qualcuno soffrisse più di lui? - E sì, più di lui, perché quel pianto non era un flebile lamento, era un grido di dolore...
-Pian pianino, a piccoli saltelli, fra l'intrico dei rovi brinati, si spinse fin al luogo dal quale proveniva quel pianto, e fu qui che scoprì una piccola creatura piumata come lui, un uccello bellissimo, con delle superbe ali lunghe e variamente colorate ripiegate, ahimé, all'ingiù, che piangeva disperato.
-Ma perché mai una creatura tanto splendida (e fortunata... beata lei, le ali le aveva!) piangeva disperata?- pensò.
Lo scoprì quasi subito: la sventurata creatura aveva le zampine mutilate, erano stati i rovi a ferirla, ed ora rivoli di sangue scorrevano sui suoi teneri arti.
D'istinto, fratello nel dolore, si avvicinò e cercò di rincuorarlo, ma l'uccellino ferito s'accorse che chi gli parlava era, a sua volta, pur se diversamente, mutilato, ed allora cercò di consolarlo, ma l'altro non desisteva dal consolarlo a sua volta.
Si vergognava, l'uccellino senz'alì, si vergognava tanto del suo pianto di prima! Non aveva le ali, è vero, non poteva volare, è vero, ma la sua vita non era in pericolo imminente, quella dell'altro sì: di certo sarebbe morto o dissanguato o d'inedia o perché un crudele rapace, approfittando della sua difficoltà, l'avrebbe ghermito e divorato in un battibaleno. Ed allora cominciò a piangere insieme a lui e, stringendoglisi contro il più possibile, gli sussurrò:
-Non ti lascio, non morirai da solo, ti starò accanto fino alla fine, mi lascerò morire anch'io con te!
-Ed iniziò a raccontare di come fosse stato ugualmente bella la sua vita anche senza le ali, saltellando qui e là tra l'erbetta fresca ed i fiori minuti e colorati, fischiando e cantando, sotto gli sguardi dall'alto attenti dei suoi fratellini e della sua mamma, di come gli volassero sempre intorno per proteggerlo.
Ma, a sua volta, anche l'uccellino morente, nella lenta agonia, trovò la forza per raccontargli qualcosa di sè, gli raccontò del senso di libertà provato nel volare, dei cieli nei quali aveva volato, dei tramonti rossi e oro in condizioni di tempo favorevoli, grigi e plumbei quando in agguato c'era un temporale, e dei mari di cobalto e di smeraldo che aveva sorvolato nella stagione buona, ma anche di quelli bigi in burrasca in cui, qualche volta, pure si era imbattuto.
E così i due uccellini sfortunati diventarono amici, e l'uccellino senz'ali ce la metteva proprio tutta per confortare lo sfortunato compagno al quale, sempre più, venivano meno le forze. Improvvisa giunse la bufera di neve; bianchi fiocchi fitti fitti cominciarono a cadere implacabili giù dal cielo, ammantando ogni cosa di neve, che subito diveniva gelida coltre.
Sempre più debole diveniva l'uccellino mutilato, ormai era allo stremo, denutrito, infreddolito. Anche se l'uccellino senz'ali aveva tentato di nutrirlo con bacche ed erbette, e di riscaldarlo intrecciando con il becco (con della lanugine miracolosamente scovato nell'anfratto di un tronco) una morbida sciarpina, con la quale lo teneva ancor più stretto a sé, le forze lo abbandonavano e lentamente si consumava il suo sangue; sui suoi occhi già calavano le tenebre oscure, ma, ancora, l'ostinato compagno, pure indebolito, gli ripeteva.
-Non ti lascio, non morirai da solo, ti starò accanto fino alla fine, mi lascerò morire anch'io con te!
-Ed insieme si avviavano a morte certa quando, in un sussulto di vita, l'uccellino senz'ali pensò di tenerlo desto col canto, e cominciò a cantare, lui che non aveva mai fatto prima, d'un canto dolce e melodioso, prima più forte, poi sempre più piano, sempre più piano, ma l'eco di quella tenera e disperata melodia arrivò lontano, lontano, lontano... Ecco che, d'improvviso, nell'aria ci fu come un lieve fremito, e si udì un timido batter d'ali, e una voce dolcissima di donna, che così parlò:
-Nessuno morirà, non morirà nessuno, vivrete entrambi, insieme, per sempre!- Era la Fata del Cielo; da lassù aveva seguito la triste vicenda dell'uccellino senz'ali e quella dell'uccellino con le zampine ferite, ed assistito al nascere della loro amicizia, ed udito l'accorata melodia.
Discese con piccoli cerchi concentrici, allargando il suo mantello azzurro trapuntato di stelline d'oro, e con i morbidi capelli color del grano avvolse i due sventurati in un morbido abbraccio, e li riscaldò, e con le labbra mielate pronunciò parole dolci, e li rincuorò, infine agitò nell'aria la magica bacchetta di cristallo, e toc, la posò sull'uno, e toc la posò sull'altro, dicendo:
-Sacra è la vostra amicizia, perché nei vostri destini sventurati non siete stati egoisti, vi siete preoccupati l'uno dell'altro, perciò per entrambi ali e zampine nuove io voglio: e così sia! Ed ora, via, volate, sani e in libertà! -ordinò la Fata.
Ed ecco, allora, il prodigio: la sciarpina che li teneva avvinti come per magia sciolse il suo nodo e svanì leggiadra, e l'uccellino senz'ali ebbe le ali, e l'uccellino dalle zampine ferite riebbe intatte le zampine.
Ed all'unisono i due compagni sfrecciarono in volo tra le nuvole, sotto gli occhi sbalorditi della mamma, dei fratellini, delle regine dei fiori, dei ciclamini, dei rovi, delle bacche, e di tutte le creature del bosco, e per giorni e giorni e giorni furono visti zigzagare felici nell'aria che, a lungo, anche dopo che scomparvero alla vista di tutti, risuonò dell'eco delle loro risa gioiose.
-Povero lui, povero lui, che destino infelice gli si preparava!- affranta pensava- Non solo non avrebbe mai provato le gioie e la libertà del volo, ma non avrebbe nemmeno avuto lunga vita. In un mondo in cui avrebbe dovuto sfrecciare di continuo nel cielo, in voli e ricorse gioiose, anche in fughe precipitose, per sfuggire ad eventuali artigli predatori, come, povero piccolo, poteva pensare di cavarsela privo degli strumenti del volo?
-Tra i suoi figli era di certo quello sfortunato, perciò lo amava ancor di più, ed allora, maggiormente amorevole, lo nutrì e lo crebbe, ed il piccolino venne su bene; ed anche se, una volta svezzato, non spiccò l'agognato volo verso il cielo insieme ai suoi fratellini, imparò, seppur maldestramente, goffamente, a zampettare qui e là, e a gioire dei voli altrui.
Consapevole che mai avrebbe potuto volare, non riusciva ad impedirsi di sognarlo, e ci provava pure nella realtà; emettendo strani versi, gonfiando il petto, sbuffando e arrancando, cercava di spiccare un balzello più alto degli altri, in modo da avere almeno l'illusione del volo.
-Chissà cosa si provava a volteggiare lassù- si chiedeva- in alto, in alto, fra le nuvolette bianche e rosa, fra i ciuffi di cirri rosa e viola che s'allungavano al tramonto nel cielo turchino della primavera; e a sorvolare, al sole infuocato di fine estate, i biondi campi gonfi di spighe di grano maturo, ove rossi papaveri sfrontati occhieggiavano; e a sfiorare i roseti, dove le languide regine dei fiori dalle testoline rosa e bianche, gialle e rosse, le rose, esalavano al vento le loro ultime tiepide fragranze, prima di dirigersi verso nuovi paesi più caldi per non esser sorpresi dai primi brividi autunnali, presagio dei crudeli rigori invernali! Meschino, mai avrebbe potuto sentire sulle sue piume la carezza del vento o il tiepido bacio del sole o il leggero brivido di una pioggerellina estiva o il primo rigore invernale!
-E fu così che, in un giorno di maggiore tristezza, all'ombra di un ciuffetto di timorosi ciclamini selvatici, dove si era nascosto per non rivelare alla sua mamma afflitta il suo dolore, cominciò a piangere a dirotto, ma qualcosa quasi subito lo distolse dalle sue lacrime... ma sì, era un altro pianto.
-Chi era che piangeva? Possibile che qualcuno soffrisse più di lui? - E sì, più di lui, perché quel pianto non era un flebile lamento, era un grido di dolore...
-Pian pianino, a piccoli saltelli, fra l'intrico dei rovi brinati, si spinse fin al luogo dal quale proveniva quel pianto, e fu qui che scoprì una piccola creatura piumata come lui, un uccello bellissimo, con delle superbe ali lunghe e variamente colorate ripiegate, ahimé, all'ingiù, che piangeva disperato.
-Ma perché mai una creatura tanto splendida (e fortunata... beata lei, le ali le aveva!) piangeva disperata?- pensò.
Lo scoprì quasi subito: la sventurata creatura aveva le zampine mutilate, erano stati i rovi a ferirla, ed ora rivoli di sangue scorrevano sui suoi teneri arti.
D'istinto, fratello nel dolore, si avvicinò e cercò di rincuorarlo, ma l'uccellino ferito s'accorse che chi gli parlava era, a sua volta, pur se diversamente, mutilato, ed allora cercò di consolarlo, ma l'altro non desisteva dal consolarlo a sua volta.
Si vergognava, l'uccellino senz'alì, si vergognava tanto del suo pianto di prima! Non aveva le ali, è vero, non poteva volare, è vero, ma la sua vita non era in pericolo imminente, quella dell'altro sì: di certo sarebbe morto o dissanguato o d'inedia o perché un crudele rapace, approfittando della sua difficoltà, l'avrebbe ghermito e divorato in un battibaleno. Ed allora cominciò a piangere insieme a lui e, stringendoglisi contro il più possibile, gli sussurrò:
-Non ti lascio, non morirai da solo, ti starò accanto fino alla fine, mi lascerò morire anch'io con te!
-Ed iniziò a raccontare di come fosse stato ugualmente bella la sua vita anche senza le ali, saltellando qui e là tra l'erbetta fresca ed i fiori minuti e colorati, fischiando e cantando, sotto gli sguardi dall'alto attenti dei suoi fratellini e della sua mamma, di come gli volassero sempre intorno per proteggerlo.
Ma, a sua volta, anche l'uccellino morente, nella lenta agonia, trovò la forza per raccontargli qualcosa di sè, gli raccontò del senso di libertà provato nel volare, dei cieli nei quali aveva volato, dei tramonti rossi e oro in condizioni di tempo favorevoli, grigi e plumbei quando in agguato c'era un temporale, e dei mari di cobalto e di smeraldo che aveva sorvolato nella stagione buona, ma anche di quelli bigi in burrasca in cui, qualche volta, pure si era imbattuto.
E così i due uccellini sfortunati diventarono amici, e l'uccellino senz'ali ce la metteva proprio tutta per confortare lo sfortunato compagno al quale, sempre più, venivano meno le forze. Improvvisa giunse la bufera di neve; bianchi fiocchi fitti fitti cominciarono a cadere implacabili giù dal cielo, ammantando ogni cosa di neve, che subito diveniva gelida coltre.
Sempre più debole diveniva l'uccellino mutilato, ormai era allo stremo, denutrito, infreddolito. Anche se l'uccellino senz'ali aveva tentato di nutrirlo con bacche ed erbette, e di riscaldarlo intrecciando con il becco (con della lanugine miracolosamente scovato nell'anfratto di un tronco) una morbida sciarpina, con la quale lo teneva ancor più stretto a sé, le forze lo abbandonavano e lentamente si consumava il suo sangue; sui suoi occhi già calavano le tenebre oscure, ma, ancora, l'ostinato compagno, pure indebolito, gli ripeteva.
-Non ti lascio, non morirai da solo, ti starò accanto fino alla fine, mi lascerò morire anch'io con te!
-Ed insieme si avviavano a morte certa quando, in un sussulto di vita, l'uccellino senz'ali pensò di tenerlo desto col canto, e cominciò a cantare, lui che non aveva mai fatto prima, d'un canto dolce e melodioso, prima più forte, poi sempre più piano, sempre più piano, ma l'eco di quella tenera e disperata melodia arrivò lontano, lontano, lontano... Ecco che, d'improvviso, nell'aria ci fu come un lieve fremito, e si udì un timido batter d'ali, e una voce dolcissima di donna, che così parlò:
-Nessuno morirà, non morirà nessuno, vivrete entrambi, insieme, per sempre!- Era la Fata del Cielo; da lassù aveva seguito la triste vicenda dell'uccellino senz'ali e quella dell'uccellino con le zampine ferite, ed assistito al nascere della loro amicizia, ed udito l'accorata melodia.
Discese con piccoli cerchi concentrici, allargando il suo mantello azzurro trapuntato di stelline d'oro, e con i morbidi capelli color del grano avvolse i due sventurati in un morbido abbraccio, e li riscaldò, e con le labbra mielate pronunciò parole dolci, e li rincuorò, infine agitò nell'aria la magica bacchetta di cristallo, e toc, la posò sull'uno, e toc la posò sull'altro, dicendo:
-Sacra è la vostra amicizia, perché nei vostri destini sventurati non siete stati egoisti, vi siete preoccupati l'uno dell'altro, perciò per entrambi ali e zampine nuove io voglio: e così sia! Ed ora, via, volate, sani e in libertà! -ordinò la Fata.
Ed ecco, allora, il prodigio: la sciarpina che li teneva avvinti come per magia sciolse il suo nodo e svanì leggiadra, e l'uccellino senz'ali ebbe le ali, e l'uccellino dalle zampine ferite riebbe intatte le zampine.
Ed all'unisono i due compagni sfrecciarono in volo tra le nuvole, sotto gli occhi sbalorditi della mamma, dei fratellini, delle regine dei fiori, dei ciclamini, dei rovi, delle bacche, e di tutte le creature del bosco, e per giorni e giorni e giorni furono visti zigzagare felici nell'aria che, a lungo, anche dopo che scomparvero alla vista di tutti, risuonò dell'eco delle loro risa gioiose.
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