"Io non mi separo" (scritto da Beatrice Masini, dai 4 anni) è una delle storie che aiutano i più piccoli ad ascoltare e riconoscere i propri sentimenti, attraverso un testo delicato, ma sincero, e immagini che non sono soltanto belle ma sanno anche dare forma alle emozioni. Dedico questa storia a tutte le famiglie, soprattutto ai bambini, che hanno conosciuto per varie ragioni la sofferenza di una separazione.
Due bambini speciali a cui dedico questa storia, sono cresciuti e sono diventati due bellissimi adulti, due fratelli maggiori per il mio "pastrugno" e da 16 anni li amo infinitamente... ♥
Ed ora... buona lettura con la storia.
Io non mi separo.
Ieri
abbiamo fatto una riunione di famiglia. Come quando dovevamo decidere
come chiamare Pepe, che poi si è chiamato Pepe ma poteva essere anche
Nino, Zorba, Hugo o Tim, che erano i nostri nomi preferiti scritti su un
foglietto man mano che ci venivano in mente, ma poi abbiamo votato e
Pepe ha preso tre voti su tre. Però questa volta il cane ce l'avevamo
già. Io avevo chiesto un gatto, ma lo sapevo che la riunione non era per
quello. La mamma è allergica ai gatti. Quindi era un'altra storia.
La mamma mi ha detto che lei e il papà hanno deciso di separarsi. Il papà mi ha detto che io resto il suo bambino preferito di tutto il mondo intero, anzi, dell'universo comprese le galassie più lontane. Solo che va a vivere in un'altra casa.
"Hai ragione, questa è diventata un po' piccola per noi quattro, adesso che c'è anche Pepe" ho detto io.
"Facciamo il trasloco?" Era una domanda stupida, lo so. E poi Pepe è un bassotto nano. No, non è vero, non era una domanda stupida. E' che la risposta la sapevo già. Era la risposta che era stupida. La risposta era no.
Il papà ha detto che non possiamo andare anche io e la mamma, che non è un trasloco: è una separazione. Lui e la mamma si separano. Ecco, l'avevano detto tutti e due. Erano pari. La mamma ha sospirato. "Vedi" ha detto "a volte i grandi cambiano il loro modo di volersi bene e di stare insieme. Prima si volevano bene in un modo che voleva dire abitare insieme e fare tutte le cose insieme, anche un bambino. Poi le cose cambiano. E adesso si vogliono bene in un modo più da amici. Al loro bambino vogliono bene come prima, non cambia niente. Ma forse non hanno più voglia di fare tutte le cose insieme".
"Quali grandi?" ho detto io.
"Noi" ha risposto la mamma, guardando il papà.
"E come la mettiamo con il bambino?" ho chiesto. "Se voi siete i grandi, il bambino sarei io."
"Eh già" ha detto il papà "saresti tu".
"Voglio dire, se voi due vi separate io che cosa faccio? Mi separo anch'io? Mi divido a metà?" ho chiesto, "Eh, no! Voi fate come volete. Ma io non mi separo". E ho incrociato le braccia.
Alla mamma sono venuti gli occhi bagnati, come quando guarda i film d'amore. Il papà si è messo a tossire, lo fa sempre quando è nervoso. Non sapevano cosa dire, era chiaro. Il papà mi ha spettinato un po'. La mamma si è alzata e mi ha abbracciato da dietro, forte.
Io sono sceso dalla sedia, sono andato fino al divano e ho acceso la tivù. L'avevo già guardata un'ora, quel pomeriggio, tempo scaduto. Ma sapevo che nessuno mi avrebbe detto di spegnere. Infatti.
Ho visto sette cartoni di fila e intanto loro stavano zitti oppure parlavano piano.
Non li ho guardati mai, anche se volevo.
Però tenevo le orecchie bene aperte. Non ho sentito dire niente di importante. Mi sembrava di aver detto una cosa grossa come una bomba: quella cosa del bambino - che sarei io - che deve dividersi a metà.
Magari capivano che non volevo.
Loro sono grandi, le cose le capiscono e sanno sempre qual è la cosa giusta.
Magari capivano che questa non è una cosa giusta. Magari ci ripensavano e cambiavano idea. Errore.
Sono passati un po' di giorni e nessuno ha più parlato di separarsi, ma dentro di me lo sapevo che non era cambiato niente. No, non è vero. Una cosa era cambiata. Prima litigavano. Adesso invece non si parlavano praticamente più.
A parte dire cose come: "Oggi Giulio lo prendi tu a scuola?" e "Domani ti ricordi di portarlo a basket?" . Prenderlo, portarlo. Come se fossi un pacchetto. A parte questo, tra loro, dico, non si dicevano niente. Sembrava che non avessero più niente da dirsi. Non come una volta, che chiaccheravano e ridevano e io ero anche un po' geloso e quando si baciavano mi infilavo in mezzo e li dividevo. Adesso non c'era più niente per cui essere geloso. Finiti i baci. Finito tutto.
Tutto com'era prima, almeno. E a me prima piaceva, perchè era normale. Era normale correre fuori di casa la mattina con la mamma nervosa, perchè eravamo sempre in ritardo, ma poi salivamo in macchina e le passava subito; o con il papà, certi giorni, che invece era di buonumore anche la mattina presto e mi faceva sempre ridere.
Era normale tornare a casa con lei la sera, e prima andare a fare la spesa, che sembra noioso ma invece è divertente, e telefonare al papà dalla macchina per dirgli che avevo preso un bel voto così lui era contento, e poi fare i compiti in due secondi per scaraventarmi alla PlayStation, e quando il papà tornava si sedeva lì con me e facevamo una partita. E poi la cena, il libro prima di dormire - una sera il papà, una sera la mamma - e la luce spenta ma loro due che parlavano di là, e io non sentivo quello che dicevano ma mi piaceva quel rumore tranquillo, un rumore di famiglia. Finito tutto.
Tanto lo sapevo com'è quando ci si separa. E' già successo a Martina: lei quando dorme dal suo papà arriva a scuola con la testa matta perchè lui non la sa pettinare, qualche volta si dimentica i libri o le cartellette del giorno dopo a casa della mamma e allora bisogna prestarle le cose e si capisce che non è contenta, perchè preferirebbe essere sempre precisa e a posto. Come prima, che era la più brava della classe in tutto.
Adesso è diventata terza, però è sempre prima in matematica perchè il suo papà le fa fare i giochi logici e lei fa dei conti pazzeschi così, a memoria, nella testa.
Io comunque non voglio essere spettinato e dimenticarmi le cose.
Non sono il più bravo della classe, sono il settimo, però voglio restare lì. Come farò?
A volte mi arrabbio e rompo le macchinine. Anche quella blu telecomandata che mi ha regalato il papà due compleanni fa. Ci cammino sopra, la schiaccio sotto i piedi. Non è più bella come prima. Mi si rompono anche le punte dei pastelli appena temperati. Forse coloro troppo forte. Ci sono troppi pupazzi nella mia stanza. Mi fanno venire i nervi. Li sbatacchio di qua e di là, tanto sono molli e non si fanno niente. La mamma guarda le macchinine morte e i pastelli, che a furia di temperarli sono diventati dei nani, e mi dice: "Fai bene ad arrabbiarti. Sono arrabbiata anch'io. Posso?" .
Prende in prestito l'orso Bobo e lo riempie di pugni. Poi me lo lancia. Io faccio lo stesso, e glielo rilancio. Andiamo avanti così per un po'. Poi io sto meglio e allora ci abbracciamo. Ha sempre lo stesso odore di mamma. Meno male che certe cose non cambiano.
Sono passati degli altri giorni, ed è vero che i baci sono finiti, però anche i litigi. La mamma e il papà sono così tranquilli che ho pensato che forse si sta aggiustando tutto. E invece no.
Una sera il papà mi ha detto che era arrivato il momento, che andava via. "Però tutti i sabati vengo a prenderti e passiamo tutto il giorno insieme. Promesso."
"Tutto il giorno non basta" ho detto. "Voglio tutti i giorni."
"Questo non è possibile, Giulio" ha detto il papà.
Io sono andato nella mia camera e ho sbattuto la porta. Forte. Nessuno è venuto a sgridarmi. Ho pensato che forse era colpa mia se si separavano. Che forse avevo fatto qualcosa di sbagliato. Ci ho pensato tanto, ma non ho capito che cosa.
Sono arrabbiato. Arrabbiato e spaventato. Arrabbiato e spaventato e anche un po' triste.
Il papà ha bussato alla porta della mia camera.
"Avanti" ho detto. Si è seduto sul letto. Io ero sul tappeto a pancia in giù.
"Mi dispiace tanto, Giulio" ha detto. "Tu non c'entri niente. Non è colpa tua. Ci inventeremo dei bei sabati, vedrai. Possiamo cucinarci quello che ci va, andare al cinema, o al museo. La città è piena di cose da fare al sabato, basta non essere pigri. E se ci va di essere pigri, saremo pigri."
"La fai facile , tu" ho pensato. "Io ho la mia vita, le mie cose da fare. Sabato prossimo per esempio, c'è la festa di Alessandro. Come faccio ad andare al cinema e al museo e anche alla festa, tutto insieme?" , questo l'ho detto forte.
Lui ha detto: "Che problema c'è? Vuol dire che ti porto alla festa e quando ti recupero andiamo al cinema, se non sei stanco".
Non lo sa che i bambini non sono mai stanchi?
Il sabato era anche quando di pomeriggio veniva a prendermi il nonno, che sarebbe il papà della mamma, e mi portava a casa sua a costruire i modellini degli aerei, e poi la sera il papà e la mamma venivano anche loro e cenavamo tutti insieme con i nonni e poi tornavamo a casa. Prima. Però il nonno ha detto: "Ci sono certe cose a cui non si può rinunciare. Non si deve. Vuol dire che cambieremo giorno. Sabato, giovedì, lunedì ...a noi in fondo che cosa cambia?" .
Bé, qualcosa cambia. Il sabato si ha più tempo si può fare tardi perché la domenica mattina si può dormire. Il mercoledì, per esempio, non è la stessa cosa. Però è il giorno che ho meno compiti di tutti: il nonno viene a prendermi a scuola, facciamo merenda e poi giù modellini come due pazzi, fino alla sera.
Quando ho finito lo stealth, ho chiesto: “Posso chiamare il papà che glielo dico?”. Il nonno ha detto di sì, e gli abbiamo anche mandato una foto, fatta col telefonino, di me vicino all’aereo.
I sabati che non andavo dal nonno, prima veniva da me il mio amico Alessandro. Non tutti i sabati: solo quando pioveva e non si poteva giocare fuori. Bé, ormai erano tre sabati di pioggia che non ci vedevamo. Io non sapevo bene cosa dirgli. Ho chiesto alla mamma, e lei ha detto: “E’ un tuo amico. Capirà”. Ho chiesto al papà, e lui ha detto: “Se vuoi puoi invitarlo un sabato pomeriggio da noi”. Così è venuto e ha visto la mia cameretta nuova. “Forte, il copriletto dei supereroi!” ha detto, “Piacerebbe anche a me”. Abbiamo giocato per conto nostro e poi il papà ci ha chiamato e abbiamo fatto la pizza insieme, con la pasta di pizza da srotolare. E’ facilissimo, basta metterci sopra le cose che ti piacciono e ficcarla in forno. Alessandro si è divertito un sacco. Al forno ha badato il papà. La pizza è venuta buonissima e ci siamo scottati la lingua per la fretta che avevamo di mangiarla. Sua mamma è venuta a prenderlo e ha detto al papà: “Carino, qui. E che profumino…” “Spiacente, la cucina è chiusa” ha scherzato il papà. “Mi sa che la pizza la fa meglio di te” le ha detto Alessandro. Abbiamo riso, tutti insieme.
Adesso dormo a volte dalla mamma, a volte dal papà. Non solo il sabato. La casa che ha lui è tutta nuova e un po’ vuota. “Vedrai come facciamo in fretta a riempirla” dice. La mia cameretta ha un odore di legno e vernice che mi fa venire un po’ mal di testa. Quando sto lì mi porto sempre il mio pigiama preferito, quello di Superman. Un giorno il papà mi ha fatto una sorpresa e ne ha comprato uno identico, praticamente un pigiama gemello, così non devo portarmelo avanti e indietro. Ha comprato anche una PlayStation, ma ha solo tre giochi e non devo dimenticarmi di prenderli da casa. L’altra casa, dico, quella della mamma. E anche quella casa lì sembra vuota, adesso, perché la sera il papà non arriva più. A cosa servono due case? Io non lo so.
Adesso la sera vado a letto con delle storie cortissime perché la mamma non ha pazienza, le sue sono sempre state le più corte per sbrigarsi, adesso ho solo queste. Una sera l’ho vista che metteva a posto i vestiti nell’armadio, adesso ne ha un sacco, di posto, tutto quello liberato dal papà. Metteva a posto i vestiti e piangeva. Sono andato a darle un bacio e lei ha tirato su con il naso. Il sabato ho chiesto al papà: “Va bene piangere anche se si è maschi?”. Lui ha detto: “Sicuro. E dopo si sta meglio. Vuoi provare?”. Ho pianto un po’, era sera e dormivo da lui e mi mancava la mamma. Lui mi ha abbracciato forte, senza dire niente. Aveva ragione: dopo ero più leggero. Ho chiamato la mamma per darle la buonanotte e le ho mandato un bacio senza piangere.
Nella mia camera, quella vecchia, c’è una foto di noi com’eravamo prima, al mare due anni fa, un secolo fa, quando ero ancora piccolo e non si era rotto niente: io infilo la testa tra loro due, abbiamo gli occhi pieni di sole e il sorriso delle vacanze. Dicono tutti che assomiglio alla mamma, e infatti abbiamo tutti e due i capelli lisci, però ho gli occhi grigi identici a quelli del papà. Mi viene in mente quello che diceva la mamma, sempre un secolo fa: “Quando ci si vuole bene, uno più uno fa tre”. Il tre ero io. Matematica pazza. Adesso uno più uno fa solo due, come sul quaderno di matematica, quello vero, senza le pazzie. Semmai fa quattro: io e la mamma da una parte, io e il papà dall’altra. Una somma tutta sbagliata, ma è uno sbagliato brutto. Non come quel tre di prima.
Una sera che eravamo da soli noi due, la mamma si è seduta sul divano vicino a me, mi ha passato un braccio attorno alle spalle e ha detto: “Giulio, io e il papà ci siamo lasciati, è vero. Ma siamo sempre la tua mamma e il tuo papà, i tuoi genitori, e questo non può cambiare. Noi non smettiamo di volerti bene. Non possiamo proprio. Capito, zuccone?” “Mmm” ho detto io. “Quindi piantala di rompere le macchinine, che non hanno nessuna colpa. E non preoccuparti per me. Sono triste, ma piano piano mi passa. Come una malattia lunga: alla fine si guarisce.”
“Tu sei già guarito?” ho chiesto al papà il sabato quando l’ho visto. L’ho detto senza tanto girarci intorno. Lui ha capito. Mi ha guardato negli occhi e ha detto: “Ci vorrà un po’. E dopo ti accorgerai che sei diventato più forte”.
“Bé, quando state bene avvisatemi” ho pensato, “Così dopo magari sto bene anch’io”.
Diciamolo: io sono ancora un po’ ammalato. Non so quanto dura questa specie di malattia. E’ come un mal di denti che non passa. Puoi fare le cose, certo, ma le fai a metà. Ogni tanto ti dimentichi di averlo, poi senti il dolore e ti torna in mente tutto. E’ un dolore che hanno anche la mamma e il papà. E lo so che piano piano stanno cercando di farlo andar via.
C’è un’altra cosa che so.
Io non mi separo.
Sto bene con la mamma. Sto bene con il papà.
Sono sempre la mia mamma e il mio papà, e questo non cambia.
Io non mi separo.
Resto un bambino intero.
Anche il papà e la mamma restano interi.
Separati, ma interi.
Cambiano tante cose, però certe no.
Il bene che gli voglio. Il bene che mi vogliono. Io sono sempre il loro bambino. Di tutti e due. E loro sono miei, ciascuno per conto suo.
("Io non mi separo" di Beatrice Masini, ed. Carthusia)
La mamma mi ha detto che lei e il papà hanno deciso di separarsi. Il papà mi ha detto che io resto il suo bambino preferito di tutto il mondo intero, anzi, dell'universo comprese le galassie più lontane. Solo che va a vivere in un'altra casa.
"Hai ragione, questa è diventata un po' piccola per noi quattro, adesso che c'è anche Pepe" ho detto io.
"Facciamo il trasloco?" Era una domanda stupida, lo so. E poi Pepe è un bassotto nano. No, non è vero, non era una domanda stupida. E' che la risposta la sapevo già. Era la risposta che era stupida. La risposta era no.
Il papà ha detto che non possiamo andare anche io e la mamma, che non è un trasloco: è una separazione. Lui e la mamma si separano. Ecco, l'avevano detto tutti e due. Erano pari. La mamma ha sospirato. "Vedi" ha detto "a volte i grandi cambiano il loro modo di volersi bene e di stare insieme. Prima si volevano bene in un modo che voleva dire abitare insieme e fare tutte le cose insieme, anche un bambino. Poi le cose cambiano. E adesso si vogliono bene in un modo più da amici. Al loro bambino vogliono bene come prima, non cambia niente. Ma forse non hanno più voglia di fare tutte le cose insieme".
"Quali grandi?" ho detto io.
"Noi" ha risposto la mamma, guardando il papà.
"E come la mettiamo con il bambino?" ho chiesto. "Se voi siete i grandi, il bambino sarei io."
"Eh già" ha detto il papà "saresti tu".
"Voglio dire, se voi due vi separate io che cosa faccio? Mi separo anch'io? Mi divido a metà?" ho chiesto, "Eh, no! Voi fate come volete. Ma io non mi separo". E ho incrociato le braccia.
Alla mamma sono venuti gli occhi bagnati, come quando guarda i film d'amore. Il papà si è messo a tossire, lo fa sempre quando è nervoso. Non sapevano cosa dire, era chiaro. Il papà mi ha spettinato un po'. La mamma si è alzata e mi ha abbracciato da dietro, forte.
Io sono sceso dalla sedia, sono andato fino al divano e ho acceso la tivù. L'avevo già guardata un'ora, quel pomeriggio, tempo scaduto. Ma sapevo che nessuno mi avrebbe detto di spegnere. Infatti.
Ho visto sette cartoni di fila e intanto loro stavano zitti oppure parlavano piano.
Non li ho guardati mai, anche se volevo.
Però tenevo le orecchie bene aperte. Non ho sentito dire niente di importante. Mi sembrava di aver detto una cosa grossa come una bomba: quella cosa del bambino - che sarei io - che deve dividersi a metà.
Magari capivano che non volevo.
Loro sono grandi, le cose le capiscono e sanno sempre qual è la cosa giusta.
Magari capivano che questa non è una cosa giusta. Magari ci ripensavano e cambiavano idea. Errore.
Sono passati un po' di giorni e nessuno ha più parlato di separarsi, ma dentro di me lo sapevo che non era cambiato niente. No, non è vero. Una cosa era cambiata. Prima litigavano. Adesso invece non si parlavano praticamente più.
A parte dire cose come: "Oggi Giulio lo prendi tu a scuola?" e "Domani ti ricordi di portarlo a basket?" . Prenderlo, portarlo. Come se fossi un pacchetto. A parte questo, tra loro, dico, non si dicevano niente. Sembrava che non avessero più niente da dirsi. Non come una volta, che chiaccheravano e ridevano e io ero anche un po' geloso e quando si baciavano mi infilavo in mezzo e li dividevo. Adesso non c'era più niente per cui essere geloso. Finiti i baci. Finito tutto.
Tutto com'era prima, almeno. E a me prima piaceva, perchè era normale. Era normale correre fuori di casa la mattina con la mamma nervosa, perchè eravamo sempre in ritardo, ma poi salivamo in macchina e le passava subito; o con il papà, certi giorni, che invece era di buonumore anche la mattina presto e mi faceva sempre ridere.
Era normale tornare a casa con lei la sera, e prima andare a fare la spesa, che sembra noioso ma invece è divertente, e telefonare al papà dalla macchina per dirgli che avevo preso un bel voto così lui era contento, e poi fare i compiti in due secondi per scaraventarmi alla PlayStation, e quando il papà tornava si sedeva lì con me e facevamo una partita. E poi la cena, il libro prima di dormire - una sera il papà, una sera la mamma - e la luce spenta ma loro due che parlavano di là, e io non sentivo quello che dicevano ma mi piaceva quel rumore tranquillo, un rumore di famiglia. Finito tutto.
Tanto lo sapevo com'è quando ci si separa. E' già successo a Martina: lei quando dorme dal suo papà arriva a scuola con la testa matta perchè lui non la sa pettinare, qualche volta si dimentica i libri o le cartellette del giorno dopo a casa della mamma e allora bisogna prestarle le cose e si capisce che non è contenta, perchè preferirebbe essere sempre precisa e a posto. Come prima, che era la più brava della classe in tutto.
Adesso è diventata terza, però è sempre prima in matematica perchè il suo papà le fa fare i giochi logici e lei fa dei conti pazzeschi così, a memoria, nella testa.
Io comunque non voglio essere spettinato e dimenticarmi le cose.
Non sono il più bravo della classe, sono il settimo, però voglio restare lì. Come farò?
A volte mi arrabbio e rompo le macchinine. Anche quella blu telecomandata che mi ha regalato il papà due compleanni fa. Ci cammino sopra, la schiaccio sotto i piedi. Non è più bella come prima. Mi si rompono anche le punte dei pastelli appena temperati. Forse coloro troppo forte. Ci sono troppi pupazzi nella mia stanza. Mi fanno venire i nervi. Li sbatacchio di qua e di là, tanto sono molli e non si fanno niente. La mamma guarda le macchinine morte e i pastelli, che a furia di temperarli sono diventati dei nani, e mi dice: "Fai bene ad arrabbiarti. Sono arrabbiata anch'io. Posso?" .
Prende in prestito l'orso Bobo e lo riempie di pugni. Poi me lo lancia. Io faccio lo stesso, e glielo rilancio. Andiamo avanti così per un po'. Poi io sto meglio e allora ci abbracciamo. Ha sempre lo stesso odore di mamma. Meno male che certe cose non cambiano.
Sono passati degli altri giorni, ed è vero che i baci sono finiti, però anche i litigi. La mamma e il papà sono così tranquilli che ho pensato che forse si sta aggiustando tutto. E invece no.
Una sera il papà mi ha detto che era arrivato il momento, che andava via. "Però tutti i sabati vengo a prenderti e passiamo tutto il giorno insieme. Promesso."
"Tutto il giorno non basta" ho detto. "Voglio tutti i giorni."
"Questo non è possibile, Giulio" ha detto il papà.
Io sono andato nella mia camera e ho sbattuto la porta. Forte. Nessuno è venuto a sgridarmi. Ho pensato che forse era colpa mia se si separavano. Che forse avevo fatto qualcosa di sbagliato. Ci ho pensato tanto, ma non ho capito che cosa.
Sono arrabbiato. Arrabbiato e spaventato. Arrabbiato e spaventato e anche un po' triste.
Il papà ha bussato alla porta della mia camera.
"Avanti" ho detto. Si è seduto sul letto. Io ero sul tappeto a pancia in giù.
"Mi dispiace tanto, Giulio" ha detto. "Tu non c'entri niente. Non è colpa tua. Ci inventeremo dei bei sabati, vedrai. Possiamo cucinarci quello che ci va, andare al cinema, o al museo. La città è piena di cose da fare al sabato, basta non essere pigri. E se ci va di essere pigri, saremo pigri."
"La fai facile , tu" ho pensato. "Io ho la mia vita, le mie cose da fare. Sabato prossimo per esempio, c'è la festa di Alessandro. Come faccio ad andare al cinema e al museo e anche alla festa, tutto insieme?" , questo l'ho detto forte.
Lui ha detto: "Che problema c'è? Vuol dire che ti porto alla festa e quando ti recupero andiamo al cinema, se non sei stanco".
Non lo sa che i bambini non sono mai stanchi?
Il sabato era anche quando di pomeriggio veniva a prendermi il nonno, che sarebbe il papà della mamma, e mi portava a casa sua a costruire i modellini degli aerei, e poi la sera il papà e la mamma venivano anche loro e cenavamo tutti insieme con i nonni e poi tornavamo a casa. Prima. Però il nonno ha detto: "Ci sono certe cose a cui non si può rinunciare. Non si deve. Vuol dire che cambieremo giorno. Sabato, giovedì, lunedì ...a noi in fondo che cosa cambia?" .
Bé, qualcosa cambia. Il sabato si ha più tempo si può fare tardi perché la domenica mattina si può dormire. Il mercoledì, per esempio, non è la stessa cosa. Però è il giorno che ho meno compiti di tutti: il nonno viene a prendermi a scuola, facciamo merenda e poi giù modellini come due pazzi, fino alla sera.
Quando ho finito lo stealth, ho chiesto: “Posso chiamare il papà che glielo dico?”. Il nonno ha detto di sì, e gli abbiamo anche mandato una foto, fatta col telefonino, di me vicino all’aereo.
I sabati che non andavo dal nonno, prima veniva da me il mio amico Alessandro. Non tutti i sabati: solo quando pioveva e non si poteva giocare fuori. Bé, ormai erano tre sabati di pioggia che non ci vedevamo. Io non sapevo bene cosa dirgli. Ho chiesto alla mamma, e lei ha detto: “E’ un tuo amico. Capirà”. Ho chiesto al papà, e lui ha detto: “Se vuoi puoi invitarlo un sabato pomeriggio da noi”. Così è venuto e ha visto la mia cameretta nuova. “Forte, il copriletto dei supereroi!” ha detto, “Piacerebbe anche a me”. Abbiamo giocato per conto nostro e poi il papà ci ha chiamato e abbiamo fatto la pizza insieme, con la pasta di pizza da srotolare. E’ facilissimo, basta metterci sopra le cose che ti piacciono e ficcarla in forno. Alessandro si è divertito un sacco. Al forno ha badato il papà. La pizza è venuta buonissima e ci siamo scottati la lingua per la fretta che avevamo di mangiarla. Sua mamma è venuta a prenderlo e ha detto al papà: “Carino, qui. E che profumino…” “Spiacente, la cucina è chiusa” ha scherzato il papà. “Mi sa che la pizza la fa meglio di te” le ha detto Alessandro. Abbiamo riso, tutti insieme.
Adesso dormo a volte dalla mamma, a volte dal papà. Non solo il sabato. La casa che ha lui è tutta nuova e un po’ vuota. “Vedrai come facciamo in fretta a riempirla” dice. La mia cameretta ha un odore di legno e vernice che mi fa venire un po’ mal di testa. Quando sto lì mi porto sempre il mio pigiama preferito, quello di Superman. Un giorno il papà mi ha fatto una sorpresa e ne ha comprato uno identico, praticamente un pigiama gemello, così non devo portarmelo avanti e indietro. Ha comprato anche una PlayStation, ma ha solo tre giochi e non devo dimenticarmi di prenderli da casa. L’altra casa, dico, quella della mamma. E anche quella casa lì sembra vuota, adesso, perché la sera il papà non arriva più. A cosa servono due case? Io non lo so.
Adesso la sera vado a letto con delle storie cortissime perché la mamma non ha pazienza, le sue sono sempre state le più corte per sbrigarsi, adesso ho solo queste. Una sera l’ho vista che metteva a posto i vestiti nell’armadio, adesso ne ha un sacco, di posto, tutto quello liberato dal papà. Metteva a posto i vestiti e piangeva. Sono andato a darle un bacio e lei ha tirato su con il naso. Il sabato ho chiesto al papà: “Va bene piangere anche se si è maschi?”. Lui ha detto: “Sicuro. E dopo si sta meglio. Vuoi provare?”. Ho pianto un po’, era sera e dormivo da lui e mi mancava la mamma. Lui mi ha abbracciato forte, senza dire niente. Aveva ragione: dopo ero più leggero. Ho chiamato la mamma per darle la buonanotte e le ho mandato un bacio senza piangere.
Nella mia camera, quella vecchia, c’è una foto di noi com’eravamo prima, al mare due anni fa, un secolo fa, quando ero ancora piccolo e non si era rotto niente: io infilo la testa tra loro due, abbiamo gli occhi pieni di sole e il sorriso delle vacanze. Dicono tutti che assomiglio alla mamma, e infatti abbiamo tutti e due i capelli lisci, però ho gli occhi grigi identici a quelli del papà. Mi viene in mente quello che diceva la mamma, sempre un secolo fa: “Quando ci si vuole bene, uno più uno fa tre”. Il tre ero io. Matematica pazza. Adesso uno più uno fa solo due, come sul quaderno di matematica, quello vero, senza le pazzie. Semmai fa quattro: io e la mamma da una parte, io e il papà dall’altra. Una somma tutta sbagliata, ma è uno sbagliato brutto. Non come quel tre di prima.
Una sera che eravamo da soli noi due, la mamma si è seduta sul divano vicino a me, mi ha passato un braccio attorno alle spalle e ha detto: “Giulio, io e il papà ci siamo lasciati, è vero. Ma siamo sempre la tua mamma e il tuo papà, i tuoi genitori, e questo non può cambiare. Noi non smettiamo di volerti bene. Non possiamo proprio. Capito, zuccone?” “Mmm” ho detto io. “Quindi piantala di rompere le macchinine, che non hanno nessuna colpa. E non preoccuparti per me. Sono triste, ma piano piano mi passa. Come una malattia lunga: alla fine si guarisce.”
“Tu sei già guarito?” ho chiesto al papà il sabato quando l’ho visto. L’ho detto senza tanto girarci intorno. Lui ha capito. Mi ha guardato negli occhi e ha detto: “Ci vorrà un po’. E dopo ti accorgerai che sei diventato più forte”.
“Bé, quando state bene avvisatemi” ho pensato, “Così dopo magari sto bene anch’io”.
Diciamolo: io sono ancora un po’ ammalato. Non so quanto dura questa specie di malattia. E’ come un mal di denti che non passa. Puoi fare le cose, certo, ma le fai a metà. Ogni tanto ti dimentichi di averlo, poi senti il dolore e ti torna in mente tutto. E’ un dolore che hanno anche la mamma e il papà. E lo so che piano piano stanno cercando di farlo andar via.
C’è un’altra cosa che so.
Io non mi separo.
Sto bene con la mamma. Sto bene con il papà.
Sono sempre la mia mamma e il mio papà, e questo non cambia.
Io non mi separo.
Resto un bambino intero.
Anche il papà e la mamma restano interi.
Separati, ma interi.
Cambiano tante cose, però certe no.
Il bene che gli voglio. Il bene che mi vogliono. Io sono sempre il loro bambino. Di tutti e due. E loro sono miei, ciascuno per conto suo.
("Io non mi separo" di Beatrice Masini, ed. Carthusia)
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