C'era una volta …
Immaginate un simpatico ed intelligente bestio parlante di trecento chili di ciccia, metteteci due occhioni intelligenti su un muso adorabile, una coda lunga lunga e squamo-sa, fatelo volare libero nel cielo con due alucce di gemme e di oro, dategli un castello colmo di gioielli, ed ecco Strabo, l’ultimo drago.
A quei tempi il nostro Strabo era felicissimo: batteva le ali velocemente per salire verso il sole, poi le chiudeva ad un tratto e precipitava a lungo a vite prima di riprendere l'assetto di volo e planare lentamente sul mondo che scorreva velocemente sotto di lui. Talvolta tentava di imitare le maestose aquile che volteggiavano alte nei cieli, ma le sue piccole ali ed il suo enorme peso non gli permettevano di stare perfettamente immobile sfruttando le correnti ascensionali.
Non se ne curava molto, ma una volta si trovò ad avere a che fare con un passerotto impertinente che lo sbeffeggiava da un albero vicino: decise di spaventarlo a morte tanto per divertirsi un po’. Cominciò lanciando una palla di fuoco sfrigolante talmente vicino all’animaletto da abbrustolirgli un po’ le penne della coda, la bestiola quasi morì dalla paura e si ricordò immediatamente che aveva un sacco di cose più importanti da fare, nessuna comprendeva il giocare con quel bruto lì e tutte erano lontanissime dal drago.
Il passerotto partì a razzo volando con improvvisi cambiamenti di direzione, Strabo cercò di inseguirlo per non interrompere anzitempo il simpatico giochino, purtroppo le sue potenti ma piccole ali (oltre al suo peso) non gli permisero quell’andatura a zig zag e lui si ritrovò tutto pesto in mezzo ai rami di una vecchissima quercia. Un corvo che vi aveva fatto il nido lo derise, e il buon Strabo si allontanò mestamente rimuginando fra sé e sé.
Che senso aveva essere il più possente degli animali se non riusciva a fare le piccole cose che anche un infimo passerottino riusciva a fare?.
Il mattino dopo lo ritrovò daccapo felicissimo e privo di problemi. Aprì le sue ali fatte di gemme incantate incastonate d'oro e, riflettendo il sole, si levò pesantemente in volo. Lì vicino un merlo partì velocissimo e prima che lui si fosse alzato di due metri, scomparì verso l'orizzonte. Strabo si accasciò quasi con un lamento: anche quello è meglio di me!.
Di cattivo umore, decise di fermarsi alla solita trattoria, era una giornata calda e lui si sedette sotto il porticato ordinando la solita cinquantina di spiedini col peperoncino piccante che smangiucchiò di mala voglia. Quando gli portarono il solito caraffone da venti litri di succo d’arancia ebbe da far boccucce e protestare sia sulla qualità dei frutti sia sul numero degli spiedini.
Era proprio di pessimo umore, avrebbe leticato volentieri con tutti e per qualsiasi motivo e quando Geroboamo, il solito cagnetto rissoso, cominciò ad abbaiargli contro non gli parve vero: ecco l’occasione per un’ottima rissa!.
Finse di spaventarsi ed indietreggiò un pochino per farlo avvicinare: l’abbaioso continuò ad abbaiargli e ad avvicinarsi. «Ancora un passettino che t’agguanto - si disse Strabo - ecco, ci sono!». Al pensiero seguì l’azione e trecento chili di drago piombarono pesantemente nello spazio occupato un attimo prima dal canino: con la velocità di una Ferrari quello aveva infilato la porta della trattoria e continuava ad abbaiare da sotto un tavolo.
Strabo si torse e si contorse, slittò sul pavimento fino a che le unghie non fecero presa in terra, si girò e partì come una freccia all’inseguimento. Seguì un attimo di silenzio poi un boato e tutta la casa tremò: Strabo si era incastrato come un tappo nell’uscio della trattoria!.
In un primo momento gli avventori cominciarono a ridacchiare, subito dopo a ridere sgangheratamente guardando le mosse convulse del drago per liberarsi. Dopo un po’, visto che il nostro proprio non ce la faceva, cominciarono a tentare di aiutarlo: chi lo tirava per la coda, chi per una gamba. Il peggio era per i malcapitati che tentavano di spingerlo: ogni tanto all’arrabbiatissimo Strabo sfuggiva una palla di fuoco che complicava la situazione.
Ci fu chi propose di buttare giù la casa (ma i proprietari non vollero) e chi di affettare il drago (ma Strabo non era d’accordo), alla fine furono portati un paio di trattori e il drago fu legato stretto stretto: motori al massimo e spingi spingi e tira tira, con un PLOP! Strabo tornò nuovamente libero.
Ringraziò tutti, era veramente un drago ben educato, e se ne andò svolazzando mogio mogio verso la sua tana.
Non si ricordava di essere il più grande e forte degli animali, si dimenticò di tutte le gemme e gli ori che giacevano nella sua tana ed anche del fatto che quella che lui chia-mava la "sua tana" era in realtà un castello fatto di luce solare, splendente come un faro e bello, talmente bello da essere indescrivibile.
Con la sua chiave d’oro aprì mestamente la porta e si accorse di passarci a stento: era orrendamente ingrassato! Ecco la ragione di tutti i suoi guai: il grasso.
Lui, il re dei cieli, era diventato grasso!
Rimase a lungo sull’uscio sentendo dentro di sé una vocina che ripeteva «Grasso, grasso! Sei diventato un grassone lardoso!».
Strabo decise subito di prendere il toro per le corna e si disse: «da oggi, basta mangiare! Mi farò un bel digiuno di almeno di una settimana, dopotutto sono un animale intelligente, anzi intelligentissimo e potrò ben decidere del mio futuro!».
Con mosse sinuose entrò nel castello e si distese fra i suoi gioielli e i suoi ori come noi ci distenderemmo in un comodo letto.
Passarono appena cinque minuti che si sentì una specie di miagolio, quasi un urlo proveniente dal «pancino» dell’enorme bestio: voleva significare «Ho fame, ho tanta fame» Strabo lo ignorò ricordandosi di aver appena mangiato una cinquantina di spiedini con il peperoncino piccante, ma il ricordo gli mise l’acquolina in bocca e decise di fare una visitina al frigorifero tanto per rosicchiare almeno una carotina.
Fortunatamente nel frigorifero non c’era molto da mangiare: una mezza mucca arrosto avanzo dello spuntino di domenica, cinque o sei polli ripieni di rigatino e lardo di colonnata, un paio di torte gelato e un sacco di altra roba. Si disse: «Comincerò la dieta da domani, parola di drago» e in pochi secondi spolverò ogni cosa.
La mattina dopo fece allegramente colazione con un teino lungo senza zucchero e due ignobili biscottini dietetici, il mezzogiorno lo vide alle prese con il «dimagriben», una ignobile brodaglia dal sapore vagamente simile alle scarpe di cuoio lessate, per cena si concesse un’intera coscia di pollo, lesso. e sedici foglie, contate, di insalata, rigoro-samente prive di olio e di sale. Fece un bel po’ di boccacce, dette un’occhiata alla televisione, ma non c’era niente di interessante e, felice di aver rispettato la dieta, andò a letto ricoprendosi di gemme e gioielli invece che di un lenzuolo come faremmo noi.
Gli abitanti del paese stettero invece svegli tutta la notte a causa dei miagolii, dei brontolii e degli urli del pancino affamato di Strabo.
La mattina dopo, daccapo teino e biscotti insipidi, ma Strabo non era tanto contento, anzi aveva un musetto triste triste. A mezzogiorno il «dimagriben» lo fece uggiare an-cora di più e quasi gli veniva da piangere. A sera, davanti all’insalatina scondita ed alla coscia di pollo lesso, cominciò a versare lacrimoni disperati. D’altra parte, si ripete-va: «Sono grasso, devo dimagrire! Altrimenti tutti mi prenderanno in giro!».
Quella notte rimasero daccapo svegli tutti gli abitanti del paese, oltre ai fortissimi rumori del pancino del nostro drago, avevano anche dei problemi per una alluvione causa-ta dalle sue lacrime.
Passò una lunga notte agitata e tormentata da orrendi incubi mangerecci: in alcuni sogni veniva tormentato da un sacco di gente che gli dava la baia e lo chiamavano “grassone” o peggio ancora “lardoso”, in altri sogni era tranquillamente seduto al solito tavolino con davanti i suoi adorati spiedini che si rifiutavano di farsi mangiare e cor-revano da tutte le parti, su e giù dalle seggiole alla tavola e lui non riusciva ad agguantarne neanche uno!.
Si svegliò con una fame da lupo, anzi di più, da drago, si lavò per benino come sempre e si spazzolò attentamente i denti, ma gli venne da piangere: dei bei dentoni così e non poter sgranocchiare, smangiucchiare, spilluzzicare, abbuffarsi, sgrifare!.
Dette un’occhiata ai suoi ori e smise almeno di piangere, ma la fame! Oh che fame! Bevve il teino lungo ed insipido ed uscì per una passeggiate. Incontrò per primo il sig. Topo, non lo riconobbe e stava per cuocerlo con un ben dosato lancio di fiamma e papparselo quando, per fortuna del sig. Topo, si ricordò di esse-re a dieta e di non poter mangiare. Il lancio di fiamma si ridusse ad uno sbuffo, ma i baffi e le punte degli orecchi del Sig. Topo furono completamente rasati.
Strabo si scusò a lungo e proseguì la sua passeggiata. Non ci vedeva dalla fame e quando intravide da lontano la Sig.ra Micia, fece partire un‘altra fiammata smorzandola solo all’ultimo momento, ma il cappellino e i peli della coda della Signora scomparvero in una nube di fumo.
Si andò avanti così per un paio di tristi, lunghi, pericolosi giorni.
Alla fine i vecchi amici di Strabo non ne poterono più: erano tutti sbruciacchiati, non riuscivano a dormire a causa degli urli e dei gemiti del pancione del drago ed inoltre tutte quelle lacrime avevano già sommerso la cuccia di Geroboamo e la Signora Quaglia era stata costretta a traslocare per ben tre volte il suo nido.
Decisero di riunirsi in assemblea per risolvere tutti insieme il problema. Uno dei soliti esagerati propose di incatenare il povero drago per tutta la durata della dieta. Qualcuno annuì timidamente, ma il Sig. Topo, proprietario della trattoria, si mise a ridere domandando “Esiste forse una catena abbastanza grossa che Strabo non possa spezzare? E poi non cesserebbero certo gli urli e i pianti”.
Discussero a lungo, ma alfine trovarono la soluzione.
La Signora Quaglia ebbe l’idea più logica e luminosa “Meglio grasso che cattivo!”.
Tutti si dettero da fare, chi per cucinare un manicaretto, chi per attirare il mogio ed affamatissimo Strabo sotto allo striscione con le storiche parole della Signora Quaglia dove c’erano, su una decina di tavoli, da sinistra verso destra: tre vassoi di antipasti vari, quattro zuppiere di pastasciutta, un paio di centinaia di spiedini con il peperoncino piccante, e polli arrosto e torte e ... tante altre cose, qualsiasi cosa vi possiate immaginare, c'era.
Strabo che in quel momento passeggiava tristemente col Sig. Topo, sentì il profumino, si diresse verso lo striscione che intravedeva fra le lacrime, lo lesse, ringraziò con lo sguardo i suoi amici, si disfece con un gesto teatrale del “dimagriben” e si gettò come un drago affamato su tutta quella roba buona.
Lunga è la strada, stretta la via,
dite la vostra che ho detto la mia. (web)
Immaginate un simpatico ed intelligente bestio parlante di trecento chili di ciccia, metteteci due occhioni intelligenti su un muso adorabile, una coda lunga lunga e squamo-sa, fatelo volare libero nel cielo con due alucce di gemme e di oro, dategli un castello colmo di gioielli, ed ecco Strabo, l’ultimo drago.
A quei tempi il nostro Strabo era felicissimo: batteva le ali velocemente per salire verso il sole, poi le chiudeva ad un tratto e precipitava a lungo a vite prima di riprendere l'assetto di volo e planare lentamente sul mondo che scorreva velocemente sotto di lui. Talvolta tentava di imitare le maestose aquile che volteggiavano alte nei cieli, ma le sue piccole ali ed il suo enorme peso non gli permettevano di stare perfettamente immobile sfruttando le correnti ascensionali.
Non se ne curava molto, ma una volta si trovò ad avere a che fare con un passerotto impertinente che lo sbeffeggiava da un albero vicino: decise di spaventarlo a morte tanto per divertirsi un po’. Cominciò lanciando una palla di fuoco sfrigolante talmente vicino all’animaletto da abbrustolirgli un po’ le penne della coda, la bestiola quasi morì dalla paura e si ricordò immediatamente che aveva un sacco di cose più importanti da fare, nessuna comprendeva il giocare con quel bruto lì e tutte erano lontanissime dal drago.
Il passerotto partì a razzo volando con improvvisi cambiamenti di direzione, Strabo cercò di inseguirlo per non interrompere anzitempo il simpatico giochino, purtroppo le sue potenti ma piccole ali (oltre al suo peso) non gli permisero quell’andatura a zig zag e lui si ritrovò tutto pesto in mezzo ai rami di una vecchissima quercia. Un corvo che vi aveva fatto il nido lo derise, e il buon Strabo si allontanò mestamente rimuginando fra sé e sé.
Che senso aveva essere il più possente degli animali se non riusciva a fare le piccole cose che anche un infimo passerottino riusciva a fare?.
Il mattino dopo lo ritrovò daccapo felicissimo e privo di problemi. Aprì le sue ali fatte di gemme incantate incastonate d'oro e, riflettendo il sole, si levò pesantemente in volo. Lì vicino un merlo partì velocissimo e prima che lui si fosse alzato di due metri, scomparì verso l'orizzonte. Strabo si accasciò quasi con un lamento: anche quello è meglio di me!.
Di cattivo umore, decise di fermarsi alla solita trattoria, era una giornata calda e lui si sedette sotto il porticato ordinando la solita cinquantina di spiedini col peperoncino piccante che smangiucchiò di mala voglia. Quando gli portarono il solito caraffone da venti litri di succo d’arancia ebbe da far boccucce e protestare sia sulla qualità dei frutti sia sul numero degli spiedini.
Era proprio di pessimo umore, avrebbe leticato volentieri con tutti e per qualsiasi motivo e quando Geroboamo, il solito cagnetto rissoso, cominciò ad abbaiargli contro non gli parve vero: ecco l’occasione per un’ottima rissa!.
Finse di spaventarsi ed indietreggiò un pochino per farlo avvicinare: l’abbaioso continuò ad abbaiargli e ad avvicinarsi. «Ancora un passettino che t’agguanto - si disse Strabo - ecco, ci sono!». Al pensiero seguì l’azione e trecento chili di drago piombarono pesantemente nello spazio occupato un attimo prima dal canino: con la velocità di una Ferrari quello aveva infilato la porta della trattoria e continuava ad abbaiare da sotto un tavolo.
Strabo si torse e si contorse, slittò sul pavimento fino a che le unghie non fecero presa in terra, si girò e partì come una freccia all’inseguimento. Seguì un attimo di silenzio poi un boato e tutta la casa tremò: Strabo si era incastrato come un tappo nell’uscio della trattoria!.
In un primo momento gli avventori cominciarono a ridacchiare, subito dopo a ridere sgangheratamente guardando le mosse convulse del drago per liberarsi. Dopo un po’, visto che il nostro proprio non ce la faceva, cominciarono a tentare di aiutarlo: chi lo tirava per la coda, chi per una gamba. Il peggio era per i malcapitati che tentavano di spingerlo: ogni tanto all’arrabbiatissimo Strabo sfuggiva una palla di fuoco che complicava la situazione.
Ci fu chi propose di buttare giù la casa (ma i proprietari non vollero) e chi di affettare il drago (ma Strabo non era d’accordo), alla fine furono portati un paio di trattori e il drago fu legato stretto stretto: motori al massimo e spingi spingi e tira tira, con un PLOP! Strabo tornò nuovamente libero.
Ringraziò tutti, era veramente un drago ben educato, e se ne andò svolazzando mogio mogio verso la sua tana.
Non si ricordava di essere il più grande e forte degli animali, si dimenticò di tutte le gemme e gli ori che giacevano nella sua tana ed anche del fatto che quella che lui chia-mava la "sua tana" era in realtà un castello fatto di luce solare, splendente come un faro e bello, talmente bello da essere indescrivibile.
Con la sua chiave d’oro aprì mestamente la porta e si accorse di passarci a stento: era orrendamente ingrassato! Ecco la ragione di tutti i suoi guai: il grasso.
Lui, il re dei cieli, era diventato grasso!
Rimase a lungo sull’uscio sentendo dentro di sé una vocina che ripeteva «Grasso, grasso! Sei diventato un grassone lardoso!».
Strabo decise subito di prendere il toro per le corna e si disse: «da oggi, basta mangiare! Mi farò un bel digiuno di almeno di una settimana, dopotutto sono un animale intelligente, anzi intelligentissimo e potrò ben decidere del mio futuro!».
Con mosse sinuose entrò nel castello e si distese fra i suoi gioielli e i suoi ori come noi ci distenderemmo in un comodo letto.
Passarono appena cinque minuti che si sentì una specie di miagolio, quasi un urlo proveniente dal «pancino» dell’enorme bestio: voleva significare «Ho fame, ho tanta fame» Strabo lo ignorò ricordandosi di aver appena mangiato una cinquantina di spiedini con il peperoncino piccante, ma il ricordo gli mise l’acquolina in bocca e decise di fare una visitina al frigorifero tanto per rosicchiare almeno una carotina.
Fortunatamente nel frigorifero non c’era molto da mangiare: una mezza mucca arrosto avanzo dello spuntino di domenica, cinque o sei polli ripieni di rigatino e lardo di colonnata, un paio di torte gelato e un sacco di altra roba. Si disse: «Comincerò la dieta da domani, parola di drago» e in pochi secondi spolverò ogni cosa.
La mattina dopo fece allegramente colazione con un teino lungo senza zucchero e due ignobili biscottini dietetici, il mezzogiorno lo vide alle prese con il «dimagriben», una ignobile brodaglia dal sapore vagamente simile alle scarpe di cuoio lessate, per cena si concesse un’intera coscia di pollo, lesso. e sedici foglie, contate, di insalata, rigoro-samente prive di olio e di sale. Fece un bel po’ di boccacce, dette un’occhiata alla televisione, ma non c’era niente di interessante e, felice di aver rispettato la dieta, andò a letto ricoprendosi di gemme e gioielli invece che di un lenzuolo come faremmo noi.
Gli abitanti del paese stettero invece svegli tutta la notte a causa dei miagolii, dei brontolii e degli urli del pancino affamato di Strabo.
La mattina dopo, daccapo teino e biscotti insipidi, ma Strabo non era tanto contento, anzi aveva un musetto triste triste. A mezzogiorno il «dimagriben» lo fece uggiare an-cora di più e quasi gli veniva da piangere. A sera, davanti all’insalatina scondita ed alla coscia di pollo lesso, cominciò a versare lacrimoni disperati. D’altra parte, si ripete-va: «Sono grasso, devo dimagrire! Altrimenti tutti mi prenderanno in giro!».
Quella notte rimasero daccapo svegli tutti gli abitanti del paese, oltre ai fortissimi rumori del pancino del nostro drago, avevano anche dei problemi per una alluvione causa-ta dalle sue lacrime.
Passò una lunga notte agitata e tormentata da orrendi incubi mangerecci: in alcuni sogni veniva tormentato da un sacco di gente che gli dava la baia e lo chiamavano “grassone” o peggio ancora “lardoso”, in altri sogni era tranquillamente seduto al solito tavolino con davanti i suoi adorati spiedini che si rifiutavano di farsi mangiare e cor-revano da tutte le parti, su e giù dalle seggiole alla tavola e lui non riusciva ad agguantarne neanche uno!.
Si svegliò con una fame da lupo, anzi di più, da drago, si lavò per benino come sempre e si spazzolò attentamente i denti, ma gli venne da piangere: dei bei dentoni così e non poter sgranocchiare, smangiucchiare, spilluzzicare, abbuffarsi, sgrifare!.
Dette un’occhiata ai suoi ori e smise almeno di piangere, ma la fame! Oh che fame! Bevve il teino lungo ed insipido ed uscì per una passeggiate. Incontrò per primo il sig. Topo, non lo riconobbe e stava per cuocerlo con un ben dosato lancio di fiamma e papparselo quando, per fortuna del sig. Topo, si ricordò di esse-re a dieta e di non poter mangiare. Il lancio di fiamma si ridusse ad uno sbuffo, ma i baffi e le punte degli orecchi del Sig. Topo furono completamente rasati.
Strabo si scusò a lungo e proseguì la sua passeggiata. Non ci vedeva dalla fame e quando intravide da lontano la Sig.ra Micia, fece partire un‘altra fiammata smorzandola solo all’ultimo momento, ma il cappellino e i peli della coda della Signora scomparvero in una nube di fumo.
Si andò avanti così per un paio di tristi, lunghi, pericolosi giorni.
Alla fine i vecchi amici di Strabo non ne poterono più: erano tutti sbruciacchiati, non riuscivano a dormire a causa degli urli e dei gemiti del pancione del drago ed inoltre tutte quelle lacrime avevano già sommerso la cuccia di Geroboamo e la Signora Quaglia era stata costretta a traslocare per ben tre volte il suo nido.
Decisero di riunirsi in assemblea per risolvere tutti insieme il problema. Uno dei soliti esagerati propose di incatenare il povero drago per tutta la durata della dieta. Qualcuno annuì timidamente, ma il Sig. Topo, proprietario della trattoria, si mise a ridere domandando “Esiste forse una catena abbastanza grossa che Strabo non possa spezzare? E poi non cesserebbero certo gli urli e i pianti”.
Discussero a lungo, ma alfine trovarono la soluzione.
La Signora Quaglia ebbe l’idea più logica e luminosa “Meglio grasso che cattivo!”.
Tutti si dettero da fare, chi per cucinare un manicaretto, chi per attirare il mogio ed affamatissimo Strabo sotto allo striscione con le storiche parole della Signora Quaglia dove c’erano, su una decina di tavoli, da sinistra verso destra: tre vassoi di antipasti vari, quattro zuppiere di pastasciutta, un paio di centinaia di spiedini con il peperoncino piccante, e polli arrosto e torte e ... tante altre cose, qualsiasi cosa vi possiate immaginare, c'era.
Strabo che in quel momento passeggiava tristemente col Sig. Topo, sentì il profumino, si diresse verso lo striscione che intravedeva fra le lacrime, lo lesse, ringraziò con lo sguardo i suoi amici, si disfece con un gesto teatrale del “dimagriben” e si gettò come un drago affamato su tutta quella roba buona.
Lunga è la strada, stretta la via,
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